di Igino Dorissa
Ma a chi sarà mai venuto in mente di costruire un villaggio, anzi due, lassù e, pure, una chiesa?
Certo, lo spettacolo della natura, di fronte a San Martino è suberbo: la magnifica estensione delle crode formate dal monte Sernio e dalle crete del Palasecca, distese come un’enorme coda di pavone. La vista è mozzafiato, e, infatti ogni parola è superflua. Ma a quei tempi, diciamo più di un migliaio di anni fa, l’uomo non aveva certo tempo di ammirare la natura, che gli era già piuttosto ostile, ma guardava a necessità ben più pratiche. Bisogna immaginare la vallata in quei tempi… A fondo valle il Chiarsò che la faceva da padrone, erodendo la valle e scegliendo il proprio percorso a suo piacimento, incurante di ogni tentativo di insediamento umano. Le rive sono scoscese e non facilmente praticabili. Ma nella conca sovrastante, nell’Incarojo, la vita umana era già presente da tempi remoti, come testimoniano i ritrovamenti celtici a Misincinis, e, nel nostro caso specifico, il misterioso villaggio esostorico di Chiaserualis, proprio sopra Rivalpo.
La valle proseguiva a monte, sia per Lanza, e il Canal del Ferro, sia per la Val Dolce, mettendo in comunicazione con la Zeglia, ovvero la valle del Gail. Gioco forza era passare per sentieri e mulattiere in quota che, oggi, appaiono folli davanti alle comode strade asfaltate sorte a fondo valle, ma il percorso, allora, era obbligato. Sopra Rivalpo stessa, poi, si aprivano ampi pascoli sui declivi più dolci che portano al Cucco e al Tersadia, ideali per insediamenti agro-pastorali.
Questi villaggi, infatti, come altri in montagna, sono sorti come naturale contorno a qualche stavolo, dapprima isolato e destinato al solo ricovero del foraggio, poi, in seguito, vi trovarono rifugio sia gli animali che i loro custodi, fino a formare, lentamente, la borgata. Case costruite rigorosamente una accanto all’altra, se non sopra l’altra, soprattutto per non occupare preziosi terreni pascolivi o coltivabili. In questo modo si possono spiegare, in estrema sintesi, Rivalpo e Valle.
Le due borgate sono sorte distanti e distinte, a poco meno di un chilometro l’una dall’altra, e sono divise naturalmente dal Riu da Purcite, un ruscello quasi sempre asciutto. Divisione non immaginaria, ma decisamente marcata. La rivalità tra le due borgate è molto sentita, pur condividendo la chiesa, il cimitero e, fino a non molti anni fa, la latteria, la scuola ed il prete.
La chiesa ed il cimitero, appunto. La Pieve di San Martino si erge a 930 metri di altitudine, quasi equidistante dai due villaggi: la chiesa ha due porte e due file di banchi. Dalla porta piccola entrano quelli di Valle, mentre dalla grande i dirimpettai di Rivalpo. Dentro la chiesa, i banchi a destra sono riservati ai Rivalpoz, la fila opposta ai Valoz. La stessa divisione vale per il coro, e, ovviamente, per il cimitero. Nel camposanto, infatti, ognuno guarda il proprio borgo! Scriveva così don Pier Antonio Bellina, il celebre sacerdote-giornalista che resse la parrocchia di Rivalpo-Valle dal 1968 al 1982.
Non ci sono documentazioni certe sulla costruzione dell’edificio sacro. Il sentire comune è che sia stata costruita tra il 1000 ed il 1200, anche se in forme ben più modeste di quelle odierne. Non è nemmeno da escludere una datazione ancor più remota, secondo alcuni, che la farebbe risalire ai secoli settimo od ottavo, al tempo, cioè, dei Longobardi. Ad ogni modo il primo atto certo che attesta la Pieve risale al 1399 (una donazione di tale Michele che lasciava dei beni alla chiesa di san Martino di Rualp e Val. Altra data che ci giunge è il 1515, quando ne viene attestata la consacrazione e, poco dopo, nel 1548, ci giunge notizia del primo parroco di San Martino, ovvero Giovanni Bergomese da Vicenza. Primo di una lunga serie di sacerdoti che giunge fino ai giorni nostri, fino all’unificazione della parrocchia con quella di Piano d’Arta.L’edificio ecclesiastico è costruito in stile neogotico, risultato di molti rifacimenti e restauri nei secoli passati, con accanto il caratteristico campanile con la cuspide a cipolla.
All’interno si può ammirare la splendida navata centrale, preceduta dall’antico battistero, sull’ala sinistra l’altare della Madonna del Sacro Cuore, con la statua lignea della Madonna col bambino e il peccatore, opera ottocentesca dello scultore gardesano Ferdinando Demetz, che viene portata in processione nella terza domenica dopo la Pentecoste. Da ammirare anche l’altare di San Giuseppe con lo stendardo della relativa Confraternita.
Nel presbiterio pregevoli affreschi attribuiti a Giulio Urbanis (1540-1613), con restauri di Giuseppe Barazzutti nel secolo scorso.
L’altare maggiore, più volte modificato anche in tempi relativamente recenti, non ha uno stile particolare, ma si può definire una sintesi di molti rimaneggiamenti nel corso del tempo, composto da marmi policromi e col tabernacolo in marmo di Carrara, del 1773. Ai lati due state lignee, recentemente restaurate, rappresentanti la Vergina Assunta e, naturalmente, San Marino Vescovo, attribuite allo scultore Andrea Brustolon (1662-1732).
Lungo la navata destra altri due altari. Uno dedicato a san Valentino, con una pala attribuita al pittore Gian Antonio Agostini di Fielis (1570-1631), mentre l’altro consacrato a sant’Antonio, con due statue in gesso raffiguranti sant’Antonio e san Floreano, del secolo XIX.
Da ammirare anche la caratteristica portantina utilizzata durante la processione della Madonna col peccatore, e la cantoria col l’organo inaugurato nel 1931.