Sbilf

“C’era una volta… così iniziano le favole, quelle che ci piacciono, da sempre, che principino così. La favola, però, che oggi vi raccontiamo, non inizia con il verbo al passato, perché è presente, attuale, e tutta da scrivere." 

La Narrazione fantastica come Via per l’evoluzione interiore

di Luisa Pavan

Pensando alla Carnia, alla mentalità dei suoi abitanti, viene spesso individuato uno stereotipo dell’uomo che vive le sue vallate: grande lavoratore, serio e quasi scorbutico, ligio ai suoi doveri ma anche attento ai suoi diritti da essere pronto a difendersi fino al litigio e allo scontro. Sembrerebbe che nulla sia volto al fantastico, alla fiaba, al mito. Eppure per me, non è mai stato così. Il mio maestro, carnico (Maestro Pugnetti), sulla sua terra mi ha fatta sorgere e fantasticare. L’ha riempita di fate, di streghe, di gnomi, di folletti, di essere positivi o negativi corrispondevano continuamente con l’uomo, destando in lui gioie e speranze, angosce e terrori. Viaggiando in Carnia, non c’è monumento che non desti ricordi strabilianti o spaventosi; non c’è fruscio d’albero che non sussurri all’orecchio formule magiche, tragiche maledizioni o sorrisi amorosi. E che dire dei corsi d’acqua, dei freschi boschi, degli scoscesi dirupi? A tutt’oggi la Carnia, è questo.

La splendida Carnia è ricchissima di leggende. Leggende che con il presente progetto cerca di recuperare. Si vuole ricollocare nel loro ambiente originale gli sbilfs carnici, di recuperarne la memoria, i luoghi d’origine, le dimore, il portamento i gusti, il carattere, l’abbigliamento e le loro attività preferite. Coabitano con noi da sempre. Sono nelle nostre vecchie case, nelle stalle e nei fienili; si nascondono negli anfratti, nelle ceppaie, nelle profondità dei boschi o si mimetizzano perfettamente in un ghiaione calcinato dal sole d’agosto.

SbilfDimorano nelle acque putride di una pozza, oppure si specchiano in una limpida polla. Sono inafferrabili e intelligenti, nervosi, scattanti, agili o grassottelli, sempre bizzarri e burloni. Benefici o diabolici, contemplativi o aggressivi, ma sempre giocherelloni: sono gli Sbilfs carnici. Una copiosa tradizione popolare ne conferma l’esistenza e, anche se da troppo tempo ormai non si narrano più le loro storie, almeno nei ricordi comuni, molti sono ancora presenti, non dimentichiamoci di loro, perché essi vivranno nella nostra memoria fin quando esisterà la nostra civiltà, il piccolo popolo scomparirà solo quando anche il mondo reale avrà fine.

La DOTTRINA DEL PENSIERO DELLE FIABE è un vero e proprio evento dedicato interamente al rapporto tra narrazioni fantastiche e spiritualità, con lo scopo di riscoprire il dimenticato potere terapeutico e conoscitivo di questo genere di narrazioni. Cenerentola, la Bella Addormentata, Pinocchio, La Lampada di Aladino, la favola di Amore e Psiche, le fiabe della tradizione contadina, sono state raccontate come chiavi privilegiate per l’accesso alla dimensione psichica. Il tutto con una gioia e una leggerezza capace di ridestare lo stupore infantile. Il tutto a difendere come un esercito gentile– con un’umiltà che si schiude in una gioiosità sapiente, dove il sorriso è capace di spezzare ogni arma. La forza del racconto si sposa con l’estrema professionalità di chi affronta questo non semplice argomento, sempre attento a rendere indimenticabile ogni occasione: dalla grazia sempre presente attento agli eventi e comunicazione, all’entusiasmo denso di allegria alla particolare affinità elettiva con il mondo, apparentemente silente, del bosco. La terapia vera, però, che abbiamo scoperto è qualcosa che vale come una rivoluzione: la cura dello stare insieme. È proprio questa la favola più bella, quella che hanno raccontato i nostri genitori, nonni, amici dei nonni, è la favola sempre al presente in cui si narra di come sia possibile creare l’incanto. L’incanto di fare in modo che persone che magari mai prima si erano incontrare e che, come se si conoscessero da sempre, si ritrovano per condividere se stessi. È la magia di Anime che diventano amiche di altre Anime. La magia grandiosa dell’amicizia circolare che realizza con il coraggio e la grazia. Come ci dice Orazio, un amico è “Animae dimidium meae”, metà dell’Anima mia. Vogliamo lasciare sola l’altra metà?”

LEGAMI FRA ESSERE E FIABE

SbilfEsiste un legame tra fiaba e “La dottrina del pensiero”, poiché in entrambe abbiamo a che fare con la radice stessa dell’esistenza umana. Se però in filosofia lo stupore è un angosciato stupore, per l’acquisita consapevolezza dell’esistenza della morte, nella fiaba l’elemento dell’angoscia è cancellato: il protagonista si ritrova nel meraviglioso e reagisce in modo spontaneo ed è questa spontaneità che ne determina il carattere. Nella fiaba l’orrore e l’angoscia esistono ma soltanto nel contesto, non nello sguardo del protagonista e questo fa sì che ci sia una forte azione liberatoria nell’ascolto della fiaba, perché ci avvicina a un mondo orrorifico però tenendoci in qualche modo immacolati. Nella versione originale, Cappuccetto Rosso dopo essere stata mangiata rimane nella pancia del lupo e questa versione è più efficace perché mantiene l’assoluto dell’innocenza: Cappuccetto Rosso esce di casa e non sa quali pericoli incontrerà e il suo gesto di ascoltare comunque il lupo ne mette in evidenza il “meraviglioso”. Nella matrice pura della fiaba c’è la possibilità di entrare in comunanza con il “meraviglioso”, sapendo che l’orrorifico esiste, ma tenendosene un po’ lontano e in questo la fiaba supera la filosofia.

SbilfLe fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo di destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto; la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non  potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come sogno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita metamorfosi possibilità di metamorfosi di ciò che esiste» Italo Calvino, ispirandosi alle fiabe afferma che: forse modellarsi ad una forma ‘decaduta’ del mito [Otto Rank] (filosolo e psicanalista), ma sicuramente è ‘l’ultima forma nella quale la produzione mitica è ancora sopportabile per l’uomo civilizzato. Nicole Belmont, Poetica della fiaba da cui le fiabe procedono dal mitico, che è l’espressione della poesia naturale, e di cui esse sarebbero come dei frammenti esplosi. “Questi elementi del mitico somigliano ai piccoli frammenti di una pietra preziosa sparsi sul suolo ricoperto d’erba e di fiori che solo uno sguardo più penetrante degli altri può scoprire. Il loro significato si è perduto da tempo, ma lo si percepisce ancora; è questo significato che incarna il senso del racconto e che, nello stesso tempo, soddisfa la nostra attrazione naturale per il meraviglioso”. Jacob Grimm, citato da Nicole Belmont:

Poetica della fiaba.

Le fiabe sono estremiste.

Le fiabe sono elettive.

Le fiabe sono profetiche.

Le fiabe sono emblematiche. I protagonisti di fiaba non sono personaggi ma emblemi.

Le fiabe sono sapienziali, rimettono in movimento tutto il nostro sostrato mitico e religioso di specie e lo perturbano. Le fiabe sono elementari e violente, perché non accolgono spiegazioni parziali e di superficie dell’incombente presenza del male nel mondo. Le fiabe possono essere contraddittorie. Non obbediscono alla pretesa filosofica della ragione separata da tutto il resto e del suo astratto teorema di non contraddizione, perché anche la filosofia si è inventata la propria fiaba e Spinoza e Plotino si sono conquistati l’onore di stare accanto a Biancaneve e alla Bambina dei fiammiferi. Le fiabe possono essere smaccatamente consolatorie – perché gli uomini hanno a volte anche bisogno di essere consolati – oppure veritiere e terribili fino alla crudeltà.

Le fiabe sono state inventate da bambini che sono poi diventati adulti e da adulti che sono diventati bambini, da adulti che per diventare tali hanno ucciso dentro di sé il bambino che erano e che perciò hanno bisogno di vendicarsi sui bambini, e da bambini morti che risorgono dentro gli adulti che li avevano uccisi. […] Perché nelle fiabe non ci sono solo lo specchio del mondo e la sua speculare realtà, perché nelle fiabe lo specchio si rompe, le apparenze possono sempre nascondere qualcos’altro che un incantesimo,un gesto di lealtà, di coraggio, d’amore, addirittura un semplice bacio possono liberare e svelare.

Proprio come i bambini giocano a creare tane e casette, anche gli adulti hanno bisogno di un caldo rifugio dove anche “costruire” -“l’angolo dei ricordi. Frammenti di storia personale”. Tutto quanto deve, in un certo senso parlare di noi. “La casa” i nostri luoghi di appartenenza, le nostre radici “è il nostro corpo più grande”. Amiamolo

La notte di San Giovanni

Una storia rituale presente in Carnia ma anche in tutto il Friuli

La notte di San Giovanni La notte che precede la festa di San Giovanni- 24 giugno- è una delle notti “magiche” del calendario popolare. In vero non è una festa unica ma un ciclo, che inizia il 23 e termina il 29 giugno, ricorrenza di santi Pietro e Paolo. In questo periodo, a cavallo del solstizio estivo, si svolgono riti propiziatori e feste rusticane in molte località d’ Europa. L’origine di queste feste è antichissima; già nella Roma antica il 24 giugno era indicato come “solstitium” o “dies lampadum”, giorno delle luci, in onore delle divinità agresti Cenere e Fortuna e questo sottofondo agro-rituale è presente in quasi tutte le culture del vecchio continente. In questa notte incantata, giovani di molte regione d’Europa cantano e ballano raggruppati attorno a falò accesi; i più ardimentosi si cimentano in una serie di salti attraverso le fiamme. Inoltre, persone esperte traggono dal colore delle fiamme e dalla loro direzione i prognostici sull’andamento della stagione agricola e malgara in corso, completando così gli auspici ottenuti sei mesi prima (solstizio invernale) dai “pignarui), i falò dell’Epifania o di quaresima di Valle-Rivalpo.

Dalla festività di San Giovanni si traggono anche altri auguri, perché le forze arcane si concentrano con particolare intensità in questa strana notte. Le ragazze, per esempio, ne approfittano per prevedere se avranno un amore felice, interpretando i “segni” che la tradizione suggerisce loro secondo i luoghi e le usanze. Di fondamentale importanza nei riti magici è la rugiada che si forma in questa notte. Raccolta all’alba, sarà poi usata nei vari filtri ma, soprattutto, per preservare la pelle da malattie. In quest’alba verranno raccolte anche particolari erbe che saranno poi, eventualmente, sacrificate, bruciandole con un rituale speciale, per calmare le forze della natura scatenata (tempesta, siccità, alluvioni tanto per citarne alcune) e per guarire malattie specifiche. Anche gli agricoltori del Friuli basso alle alte terre della Carnia, cercano di trarre il massimo profitto.

Dalla Lombardia all’alto veneto, ad esempio, all’alba di San Giovanni calpestano i fusti delle cipolle e annodano quelli degli agli. Questa pratica favorirà lo ingrossamento dei bulbi sotterranei, a tutto vantaggio dei coltivatori. Notevole anche il potere vermifugo degli spicchi d’aglio raccolti in questo periodo. Spicchi che si appendevano poi, a mo’ di rosario, al collo dei bambini afflitti da questi indesiderati e fastidiosi ospiti. Poi una per tutte si raccolgono le noci all’alba bagnate dalla rugiada per poi trarne un elisir di noci magiche il nocino). In questo periodo si fanno imponenti riunioni elfiche in luoghi famosi, come la Radura di Benevento oppure la foresta di Brucken in Germania.

Anche in Carnia il prato delle streghe, sul monte Tenchia, ne ospita una importante. Veramente i raduni sul Tenchia avvengono settimanalmente ogni giovedì notte, ma quello di San Giovanni è speciale Fate, Streghe, Sbilfs, Maghi, Fauni, Omenuts, Nani e tutta la bizzarra congrega degli spiritelli europei si danno colà convegno. Se poi San Giovanni capita di giovedì, sarà senz’altro un incontro che passerà “tout court” negli annali elfici per l’importanza dei contenuti, per grandiosità e briosità della festa, nonché per la bravura dei musicanti. Inoltre, poiché la festa non può durare più della notte-e San Giovanni ha la notte più corta dell’anno - l’intensità e l’allegria sarà parossistica.

SBILFS E AGANIS PSICANALISI FILOSOFICA

..dalle terre alte della Carnia e terre basse del Friuli “magie e fate”..

Sbilfs e Aganis sono probabilmente gli esseri fatati più noti in Friuli. Sono esseri sfuggenti difficili da veder ed incontrare; eppure vi sono tantissime storie che ne parlano. Gli Sbilfs sono protagonisti di molte leggende della Carnia. Si narra siano folletti dei boschi. Completamente mimetizzati, vivono nel sottobosco ma in taluni casi anche vicino all’uomo, in stalle e fienili. Il loro rifugio prediletto rimane il bosco ed in particolare la cavità di un albero. Sono di piccole dimensioni, intelligenti, inafferrabili e spesso anche burloni, ma nello stesso tempo pronti ad aiutare chi nei boschi si trova in difficoltà. Gli Sbilfs sono eternamente fanciulli, amanti dei giochi, della danza, della musica. Hanno un carattere fortemente mutevole. In genere non sono cattivi. Agiscono, tuttavia, secondo la tipica incoscienza dei bambini. Generalmente gli Sbilfs sono invisibili, ma possono manifestarsi ad alcuni e rimanere invisibili ad altri. Sono quindi molto difficili da incontrare e da vedere, cosa che sembra essere più facile ai bambini e ai buoni di cuore. Amano il rosso, tanto che in molti vestono con abiti di questo colore e sono ghiottissimi di Zûf (una preparazione di latte e farina di mais che si usava un tempo per servire la colazione). Assumono nomi differenti a seconda della zona o più spesso della loro “umore”. C’è così il Licj intento ad annodare corde e fili che trova nelle abitazioni o il Brau che ama scucire vestiti e tende.

Il Bagan, folletto della stalla, che se infastidito rovescerà i secchi colmi di latte e nasconderà gli attrezzi di lavoro. Il Maçarot, abilissimo a fare dispetti. Questo, anticipa la burla con un sibilo, quindi conclusa la beffa si dimena in una stridula risata. Il Massaroul che pur indossando una calzamaglia rossa, non sopporta questo colore. A Forni di Sopra, il Maçarot è spesso accompagnato da sua moglie, Ridùsela, anch’essa intenta a combinare bricconerie. A Gemona si trova, invece, il Pamarindo sempre intento a bloccare il passaggio allargandosi a dismisura. Vi è poi il Boborosso, tra i più cattivi, assorto a provocare gli incubi notturni ai bambini. La zona di Paularo sarebbe invece abitata dai Guriùz. Questi, particolarmente burloni e golosi, sarebbero spesso intenti a sottrarre dolci e squisitezze dalle cucine. Una leggenda parla, tuttavia, della loro estinzione. I Guriùz avrebbero costruito un castello per metà interrato nel quale nascondevano un enorme tesoro. Assaltati da un esercito straniero furono tutti uccisi. Il nascondiglio non fu mai rilevato ed il tesoro mai trovato. Gli Sbilfs, protagonisti di racconti fantastici, sono la rappresentazione del rispetto che avevano i nostri antenati nei confronti della Natura. Un profondo rispetto che suggeriva di non tagliare mai un albero senza motivo. Il termine Aganis (Anguane in italiano) deriverebbe dal latino “Aquileiese” aquana. Sono delle “ninfe” acquatiche tipiche della mitologia alpina e particolarmente note in Carnia. Il mito delle Aganis sembrerebbe derivare dalle ninfe romane, ma in esso è anche possibile trovare elementi della cultura germanica arcaica. Le Aganis sono “spiriti” dei corsi d’acqua (fonti, fiumi, torrenti, ruscelli). Sono rappresentate in differenti modi, ma assumono sempre sembianze femminili; in talune occasioni sono giovani ed attraenti fanciulle, in altre anziane donne ma sempre assai “vispe”. In particolare, era possibile scorgerle nelle notti di luna piena, quando si riunivano danzando avvolte da abiti bianchi; vesti che lasciavano poi asciugare al chiaro di luna. Secondo la credenza popolare sarebbero le protettrici dei pescatori ed in molte occasioni avrebbero aiutato l’uomo. Si narra che abbiano insegnato alle donne la lavorazione della lana ed agli uomini la trasformazione del latte in formaggio. A loro veniva inoltre attribuito il potere di far sognare i bambini. In Friuli si rintracciano un po’dappertutto racconti che narrano della loro presenza. In alcuni paesi si dava per certa la loro esistenza. Le leggende tramandano che nel torrente Macilla presso Chiusaforte era assai facile scorgerle mentre uscivano dall’acqua. Testimonianze simili sono state raccolte anche ad Andrèis, San Daniele, Blessano e Feletto. Come lo scorrere dell’acqua, in talune circostanze sarebbero dolcissime, in altre estremamente perfide. Se offese porterebbero sfortuna per tutta la vita! Particolarmente cattive sarebbero le Krivopete “slovene” dalle quali è meglio stare alla larga. Gli Sbilfs, i folletti dei boschi e malghe della Carnia. Passeggiando tra i boschi delle Carnia,  è possibile che vi sentiate osservati o che riusciate a sentire strani rumori che comunemente attribuireste agli animali che corrono tra le foglie. Possibile certo, ma chissà che invece non si tratti dei Sbilfs? Si dice infatti, che un tempo le grandi foreste a ridosso delle Alpi e nelle malghe, erano abitate da tantissimi folletti che avevano come dimora i grossi tronchi degli alberi, amavano correre nel sottobosco e anche fare molti scherzi a chi si trovava a passare di lì. Spesso si spingevano fino ai villaggi, dove si burlavano degli abitanti rubando leccornie e pietanze succulente. Gli Sbilfs non sono cattivi, ma adorano giocare in modo benevolo con chi gli sta intorno anche se spesso non vengono visti. Solo alcuni hanno questa fortuna e spesso si tratta di bambini o di persone particolarmente buone, ancora in grado di vedere con il cuore e non solo con gli occhi. Questi folletti, dall’abito rosso, ghiotti e inafferrabili, oltre a prendersi gioco della gente sono anche molto propensi ad aiutare chi si trova davvero in difficoltà. Alcune persone perse nella fitta vegetazione friulana e carniche, pare abbiano miracolosamente trovato la strada, così, per pura magia o magari per opera degli Sbilfs. Secondo la zona di abitazione, possono avere nomi diversi. La presenza di questi simpatici abitanti dei boschi, è ancora oggi narrata ai bambini ed è una delle storie più caratteristiche del Friuli e delle sue terre alte. Come tutti i racconti leggendari, lascia dietro di sé un alone di magia e mistero tanto che, percorrendo i sentieri tra castagni, faggi, pini e abeti, sembra quasi di percepire i loro sguardi nascosti dietro le foglie.

LE ORIGINI DELLA LEGGENDA

Questi simpatici folletti sono i protagonisti di molti racconti antichi (si perdono nella memoria dei nostri antenati) e rappresentano il grande rispetto che i nostri antenati avevano nei confronti della natura e del bosco, con i suoi alberi, piante e animali. Dei folletti che vivono nei boschi della Carnia e che per non essere trovati o visti, si mimetizzano completamente nel sottobosco. Anche se il loro luogo preferito rimane appunto il bosco, in alcuni casi si avvicinano all'uomo, trovando posto in stalle e fienili: …stiamo parlando degli Sbilfs ! Creature delle Terra (Carnica). Il termine Guriuts deriva da un antico termine friulano per descrivere uno gnomo. Nella valle del Chiarso’, in Carnia, sono descritti come esseri muscolosi con folta barba, vestiti con abiti in cuoio, la loro altezza e’ di circa 40 centimetri, vivono nelle grotte, in genere nei pressi delle miniere.

I Gans sono definiti come folletti dei boschi, solo alti circa 30 centimetri, presentano tratti umani ma le loro orecchie sono appuntite, possiedono una grande forza. Indossano vestiti di pelli di animale e un berretto di colore rosso o verde. Vivono nelle caverne o nei tronchi d’ albero e molte volte si rifugiano nei fienili delle stalle. Con l’ appellativo di Sbilfs sono indicati i folletti dei boschi che possono rendersi visibili solo ad alcune persone. Amano le arti creative come la pittura, la scultura del legno e altre. Sono alti circa 30 centimetri. Hanno lineamenti umani ed orecchie a punta, smilzi e grassottelli, furbi e dispettosi, guardano le ragazze sotto le sottane ed aiutano le persone in difficolta’. Vivono nel sottobosco e nelle cavita’ degli alberi, nelle stalle e nei fienili, escono per mangiare o fare burle. Indossano un berretto rosso, verde o marrone. Sono vendicativi.

I Bagan appartengono alla famiglia dei gans, sono bonari ed amanti degli animali domestici. Amano fare dispetti,nascondono gli utensili da lavoro poco usati, rovesciano I secchi di latte nelle stalle e si affezionano agli animali. Sono abbronzati e indossano una camicia di colore verde. Il balarin e’ stato definito come una creatura indiavolata, tanto da meritarsi l’ appellativo di mostro. Si manifesta nella laguna di grado di solito al calar delle nebbie. Il Basilic e uno sbilfs tra I piu’ cattivi. Si trasorma in animale con corpo da uccello con piedi di rospo e testa di serpente, uccide con lo sguardo e secca la terra al suo pasaggio. E’ tipico delle zone della valcellina e natisone. Potrebbe trattarsi del “basilisco” presente nelle leggende medievali. Bergul è uno sbilf dispettoso, ama far inciampare nel bosco uomini e animali, solitario si ripara nelle grotte e nei tronchi. Si nutre con fragole e mirtilli. Grassotello e di aspetto trasandato. Il Beric vive all’ interno di vecchie torri tra ruderi di castelli in rovina. E’ uno sbilf malvagio che detesta gli umani, robusto muscoloso, capelli lunghi e barba aggrovigliata. Teme I crocifissi e alcune citazioni bibliche. Il Bliss e’ definito come uno spirito che accompagna le anime disorientate ad attraversare il tunnel che porta in paradiso. E’ un omino con gli occhi azzurri, buono e malinconico. Il Brau e’ uno sbilf molto dispettoso, normalmente e’ attratto dalle corde e dalle funi, lacci di scarpe, crini di cavallo. Ama fare intrecci e nodi molto complicati da scioglere vive in prossimita’ delle case o delle fattorie, dove attende il momento propizio per entrare in casa per fare I suoi scherzi. I luoghi prediletti, pero’, sono I torrenti e I fiumi, dove divengono vittime I pescatori quando trovano tutte le lenze ingarbugliate. Il brau detto anche giani e’presente in tutto il friuli. Il Boborosso normalmente definito con il nome di babau, di solito viene invocato dai genitori per spaventare I bambini vivaci e dispettosi. Il Cascunit e’una creatura simile ad un fauno il suo corpo e’ composto meta’ uomo e meta’ asino, vive nei monti carnici con le sue dolci melodie e’ capace di estasiare le ragazze adolescenti. I periodi adolescenziali delle giovani donne, con le cotte e gli innamoramenti erano attribuiti a questo personaggio. Il Catez ha il suo habitat nelle zone del fiume isonzo, viene descritto molto cattivo e pericoloso, meta’ uomo e meta’ capra. Imprevedibile qualche volta avrebbe aiutato le persone in montagna, ma, se si arrabbia e’ in grado di far perdere la strada ai viandanti e causare frane. Il Cialciut detto anche Vencul, il cialciut e’ uno sbilf che vive nascosto nelle case. Appare solo di notte sedendosi sul petto degli umani durante il sonno provocando loro incubi.Si tratta di un folletto grassotello, vestito in calzamaglia di colore rosso. Qualcuno lo paragona ad un vampiro a causa dei lividi che provoca sui corpi delle persone. Il Fulan vive fra I ruderi delle vecchie abitazioni dove trascorrerbbe il tempo con I fantasmi. Il Gjulit e’da classificare tra gli sbilf piu’ malvagi. Porta con se’un sacco ed un rampin, dall’aspetto trasandato, ama rapire I bambini per poi venderli alle fate. Indossa una bombetta di colore verde. Il Licj e’ uno sbilf che predilige nascondersi nelle case o nelle stalle in attesa del tramonto ed attende la mattina per fare gli scherzi agli umani. I suoi vestiti, solitamente, sono di colore rosso e si vanta di avere un cappello piumato. Il Maruf folletto della val pesarina, vivace, dispettoso, ma non pericoloso. Predilige vestirsi con I colori rosso e verde. Il Massaruol e’ uno sbilf che vive vicino alla localita’ di timau. Ama moltissimo a fare gli scherzi e rincorrere belle ragazze, dalla corporatura esile e vivace. Vive nei boschi e si nutre di bacche, fragole e mirtilli. Lui e la sua compagna rudusuela amano fare gli scherzi nel periodo invernale. Mazzarot detto anche macarot, la sua presenza si riscontra in molte regioni d’italia e in tutte le zone dell carnia. Corporatura longilinea, vestito di rosso e con un copricapo di piume d’ uccello o di foglie. Di solito slega gli animali e ama disperderli abbandonandoli. Ama far rumori battendo nelle mura delle case e nei tronchi degli alberi. Ama sottrarre agli umani, latte burro e formaggio. Si narra che nel tentativo di ricncorrelo molte persone abbiano perso l’orientamento. Il Paramindo e’uno sbilf molto temuto dai pastori, in quanto tra I suoi passatempi preferiti c’è quello di spaventare il bestiame o le greggi di pecore e dirigerle verso I precipizi dei burroni per poi farli precipitare. Risiede nella zona del gemonese. Indossa un cappello ed un paio di scarpe a punta entrambi di rame. Avrebbe la capacita’ di estendersi per molti metri diventando un gigante mostro. Il Pavar e’ uno sbilf appassionato di piante e di animali. Molto servizievole e laborioso. Vegetariano, si nutre di fagioli che ama anche coltivare. Aiuta chi si trova in difficolta’. Molto cattivo con l’ uomo che inquina l’ ambiente. Chi lo ha incontrato lo ha descritto con abiti marrone e con delgi zoccoli ai piedi. Il Persarul denominato anche pesarin sarebbe uno sbilf, anche se per molti si tratta di un elfo. Non si conosce molto di questo essere. Viene pargonato al cjalciut che hale stesse caratteristiche. Skrat e skarific si tratta di 2 folletti che hanno le stesse caratteristiche presenti nelle valli del natisone. Vengono descritti piccoli, pelosi, con cappello verde ed agiscono sempre in gruppo per fare gli scherzi. Secondo la tradizione lo skrat sarebbe un bambino morto senza battesimo. Spirfolet o sbirfolet abitante nella bassa friulana, pargonabile al macarot, simile al“esprit follet”della francia,molto dispettosi,prediligono fare scherzi nelle stalle. Non conosciamo molto del Tucul, si tratta di un folletto tentatore. Il Zuan e’ uno sbilf viaggiatore, alla ricerca di antichi tesori. Possiede un rifugio segreto dove nasconde gli oggetti trovati. Viene descritto uno sbilf magro, vivace, con una borsa a tracollo e che predilige oziare nei prati quando non e’in viaggio.

Secondo la leggenda Carnica, gli Sbilfs sono delle creature di piccole dimensioni, intelligenti e anche burloni, ma con un animo gentile, perché sempre pronti ad aiutare chi si trova in difficoltà all'interno del bosco. Il loro carattere è come quello dei bambini, molto mutevole. La leggenda delle Varvuole, le orribili streghe del mare, ha origine secoli fa al tempo delle scorribande dei pirati dalmati: gli Uscocchi. Erano streghe spaventose, venivano dal mare vestite di stracci e avevano i capelli che sembravano fili di ferro e occhi come due tizzoni ardenti. Nelle vicinanze delle Grotte di Torlano, sulla strada che da Nimis porta a Chialminis, c’è un posto detto i “cretàz” dove secondo la tradizione nei pressi di un capitello all’ombra di un grande albero di noce le streghe usavano danzare coi diavoli. Inoltre, si riteneva che le fattucchiere avessero nascosto lì un tesoro, e alcuni visitatori stranieri, saputa la voce, si misero a cercarlo ma scavando trovarono solo una lapide con scritto: “Bene facesti che mi girasti che le costole mi dolevano”. Spaventati ricoprirono tutto e posero fine alle ricerche. Il Friuli ha una lunga e feconda tradizione connessa alle streghe e agli stregoni. Si è infatti lungamente discusso dei Benandanti, una particolarità tutta friulana di maghi. Però non sono mancante, nell’entroterra friulano, le streghe tradizionali, spesso vittima degli oscurantismi del periodo. Nomi come La Rossa, Domenatta, Aquilina, Apollonia e così via, ricordate ad esempio nell’opera di Monia Montechiarini ‘Streghe, eretici e benandanti del Friuli Venezia Giulia‘. Spesso le streghe friulane erano levatrici o esperte di erbe; in altri casi ancora si professavano in effetti streghe, preparando pozioni d’amore e rimedi per i contadini, all’insegna di una mescolanza tra cristiano e pagano, tra l’antro della maga e il santuario mariano.

C’era una volta… tracce di storie popolari nelle scienze umane “C’era una volta" una regina che aveva una bimba piccola e doveva ancora portarla in braccio. Un giorno la bimba era cattivella; e, la mamma dicesse pur quel che voleva, non si chetava mai. Allora la regina si spazientì e poiché intorno al castello volavano dei corvi, aprì la finestra e disse: – Vorrei che tu fossi un corvo e volassi via, così potrei stare in pace –. L’aveva appena detto che, la bimba si trasformò in corvo e volò via dalle sue braccia, fuor della finestra. Volò nel folto di un bosco e vi rimase un bel pezzo, e i genitori non seppero più nulla di lei” (Fiabe dei Fratelli Grimm, Il corvo, p.85). L’incipit della fiaba dei fratelli Grimm intitolata Il corvo mostra con esplicita crudezza, ma senza tabù o disagi, il tema ricorrente della violenza e dell’abbandono dell’infanzia, esperienza quotidiana, soprattutto in certi periodi storici, dove i bambini venivano considerati del tutto marginali rispetto ad una società esplicitamente adultocentrica. I Grimm usavano trascrivere le storie e i racconti da anziane narratrici e vecchi narratori che grazie all’esercizio dell’oralità e della memoria tramandavano di generazione in generazione elementi popolari di grande rilevanza. Raccoglievano testimonianze famigliari; descrizioni folkloristiche di usanze e costumi diffusi tra le genti; trascrivevano documenti ed epistolari cercando di ricostruire lo specchio culturale e sociale di un’epoca e “rinarravano le storie in base a una loro idea della semplicità popolare”  (Calvino, p. XI 232 Articoli Studi sulla Formazione, 2017-2)   

ANALISI DELLE FIABE  Ci ricorda Italo Calvino nell’introduzione alle Fiabe dei fratelli Grimm nell’edizione Einaudi del 1970, che questo lavoro di custodia della memoria e di rilancio delle tradizioni popolari, aveva come scopo il consolidamento dello spirito di appartenenza e la diffusione di una coscienza patriottica, fondamentale per contrastare il travaglio politico e culturale che tutta l’Europa stava vivendo a causa delle invasioni napoleoniche. Di conseguenza i canti popolari, i proverbi, le fiabe e i racconti tramandati a viva voce potevano servire da collante per cementare la coscienza nazional-popolare in nome di una storia condivisa, in nome di una Patria da salvaguardare. Ma sono soprattutto le pratiche di vita sociale gli indicatori più importanti che suggeriscono l’evolversi della genesi fiabica come archetipo dell’immaginario individuale e collettivo, sempre presente ed attivo all’interno dei processi di costruzione delle mentalità, dei costumi e delle dinamiche proto-educative (Cambi, 2002). È altrettanto vero che Vladimir Propp in Morfologia della fiaba sostiene che la struttura della fiaba è ricorrente e monotopica e questo suggerisce l’idea che le fonti della narrazione siano uniche ed uguali per tutte (ante litteram) ma questo ha forse più una matrice psicologica che non antropologica in quanto l’archetipo fiabico affonda le proprie radici nella produzione simbolica dei miti generativi. È forse nel concetto di processo di individuazione proposto nel volume di Carl G. Jung L’uomo e i suoi simboli, che potremo intercettare l’idea dell’archetipo fiabico e la sua universalità poiché la fiaba viene intesa come quel lungo viaggio iniziatico – di formazione – dalla giovinezza verso l’adultità. Dall’esordio inziale (contesto di vita) il personaggio principale, l’eroe, affronta una complicazione (il problema reale) che attraverso l’uso della ragione e con l’ausilio degli oggetti magici, viene risolta e superata positivamente (consapevolezza e conoscenza) e la storia del nostro personaggio riconquista un equilibrio e una forma più ricca e articolata. È viaggio tutto in divenire per il riconoscimento e l’acquisizione formale e sostanziale del proprio Sé, un Sé che sempre si struttura all’interno di un contesto storico e sociale definito e che giustifica la propria identità nei fondamenti di un’azione narrativa universale, di riconoscimento e ricongiungimento antropologico, ovvero fiaba. La raccolta di fiabe dei fratelli Grimm (la prima del 1812) per molti aspetti è da considerarsi come il primo approccio all’antropologia culturale perché uno degli elementi di maggior spicco nel lavoro dei due scrittori e fratelli tedeschi fu proprio lo studio del folklore e delle tradizioni etniche dei gruppi popolari. Ricerche di questo tipo furono poi accolte e proseguite dagli antropologi “interessati ai miti e alle credenze delle culture primitive in Africa, delle Americhe e dell’Oceania” (è sempre Italo Calvino che parla, XVI). Lo stesso Claude Lavi-Strauss vede nella narrazione e nella costruzione di fiabe e di miti – sempre strettamente connessi – un costrutto culturale che non è legato principalmente alla dimensione storica o geografica di un popolo o di una civiltà, ma all’attività della mente che produce immagini razionali e irrazionali, simboliche ed analitiche dell’esistenza umana (ma anche del cosmo e dell’universo) (Levi-Strauss, 2009 e si vedano anche i testi di Gilbert Durand sull’immaginario). Tornando, poi, alle fiabe dei fratelli Grimm, dagli studi comparatistici che hanno preso il nome di novellistica popolare comparata, è emerso che molti dei miti, delle leggende e dei motivi narrativi che si credevano unici e tipici dell’area tedesca, in realtà erano presenti anche in popolazioni distanti dall’Europa e questo rappresentò una svolta importantissima poiché rafforzò la teoria della monogenesi, ovvero la nascita di beni delle scienze umane all’interpretazione della fiaba un mito in una specifica area geografica e culturale e la successiva irradiazione. Ancora Italo Calvino scrive “ciò che nella storia umana è narrazione e immagine – dalle cosmogonie degli Indios, alla mitologia greco-romana, a Cappuccetto Rosso – appare oggi come manifestazione d’un processo mentale unico, che da un secolo all’altro e da un continente all’altro ripete gli stessi schemi. Alcune scuole interpretative individuarono nei motivi delle fiabe le fasi dei riti di iniziazione; altre riconobbero in essi i simboli dei sogni […] Il dibattito fra le varie scuole continua, e le fiabe, in tutta la loro elementare semplicità rimangono una delle più misteriose espressioni della cultura umana. E ancora si continua a fare riferimento alla raccolta dei Grimm, capostipite di tutte queste ricerche” (pp.XVI-XVII). La produzione dei fratelli Grimm è quasi una produzione etnografica di matrice pre-strutturalista che tenta di decifrare le costanti sociali e culturali di un fiabico come struttura narrativa e operativa sia a livello educativo che formativo, che organizza la storia del divenire umano e di tutte le variabili che lo animano. Si traccia, dunque, già a partire dai primi anni del XIX secolo – e ancora Levi Strauss insieme a Gilbert Durand ci diranno che il modello delineato dai fratelli Grimm può applicarsi a culture e popoli in fase addirittura pre-scrittura –, uno stretto legame tra quella che sarà la tradizione fiabica e le nuove scienze umane come, appunto, l’antropologia e la psicanalisi. Non estranea, ovviamente, a questa prassi interpretativa e costruttiva è la pedagogia che intrecciando la lezione antro-psico-etnologica rilegge lo sviluppo delle esperienze fiabiche (dell’eroe, di maghi e di streghe) come il dipanarsi complesso delle vicende umane, intrise di magia, di stupore e aspettative nei confronti di un destino sconosciuto. Uno sguardo sempre attento e sempre vibrante su questo “intricato percorso” che volge verso la costruzione dell’immaginario, una categoria, questa, profondamente e esplicitamente pedagogica perché sta alla base della costruzione/formazione dell’identità del soggetto e come tale è il collante primario tra uomo (logos) e società (ethos). Storia di uno che se ne andò in giro in cerca della paura… Secondo il punto di vista antropologico, la fiaba è la forma di conoscenza primor “il ciclo di iniziazione è il fondamento più antico della fiaba” perché accomuna le prassi di tutti i popoli e rappresenta l’unitarietà delle fonti storiche e sociali. (p. 381). Inoltre, il viaggio iniziatico, è un vero e proprio viaggio di formazione perché, come sostiene Bruno Bettelheim, le percezioni emotive, le sensazioni e gli affetti, diventano esperienze concrete ed il lettore entra dentro il mondo fiabico non da spettatore ma da protagonista, utilizzando gli elementi magici del racconto come strumenti purificatori e chiarificatori. La storia dei quattro fratelli porta con sé, infatti, elementi di estrema quotidianità (la povertà, l’emarginazione, la diffidenza, la cupidigia, per certi aspetti tutte caratteristiche presenti in questa fiaba) e quando il re darà loro per premio “la metà di un regno”, i fratelli smetteranno di litigare, metteranno in secondo piano i sentimenti – veri o presunti – dichiarati per la giovane principessa ed esulteranno della fortuna ricevuta perché li sottrae da una condizione di marginalità e sofferenza e li ricolloca nel mondo in una forma tutta nuova: da perdenti a vincitori. La prima tappa trasformativa si è compiuta. Se è vero quindi che da un punto di vista antropologico la fiaba spesso si confonde con il mito – secondo la lezione di Vladimir Propp – sono altrettanto importanti sia l’aspetto psicanalitico che quello formativo, così permeabili all’esistenza umana e nel con tempo fortemente contrapposti. Marie-Louise Von Franz sostiene, fin dalle prime righe del volume Le fiabe interpretate, che “Le fiabe sono l’espressione più pura e semplice dei processi psichici dell’inconscio collettivo” e che il loro linguaggio sembra essere un linguaggio universale perché accomuna, e allo stesso tempo riesce a stupire e a far parlare intere generazioni: di ogni paese, di ogni etnia, di ogni civiltà, soprattutto per la ricorsività dei temi, per le emozioni in esso nascoste e per le criticità culturali e identitarie che è in grado di intercettare (Von Franz, 1980). È storicamente ben definito che la fiaba rappresenti non solamente un genere letterario ma, soprattutto, un archetipo “del profondo” che unisce molteplici dimensioni del mentale e del narrativo, della sfera razionale e irrazionale del nostro pensiero, che Gilbert Durand, da un punto di vista psico-antropologico, ha indicato con il termine immaginario – qui già più volte indicato. I contributi delle scienze umane all’interpretazione della fiaba è proprio la psicanalisi, come ci ricordano Franco Cambi e Carlo Fratini nel volume Itinerari nella fiaba, a riconoscere, per prima, gli aspetti formativi e quindi pedagogici della fiaba a livello individuale, e con essa – sostiene Bruno Bettelheim – si vanno a toccare gli snodi più profondi della nostra “situazione esistenziale” (Bettelheim, p.12). Sarà proprio Bruno Bettelheim a rilanciare le fiabe come possibili strumenti risolutori di problemi psicologici proprio perché esse esprimono un dilemma esistenziale e lo esprimono in maniera chiara e concisa riuscendo così ad aiutare, anche i più piccoli, ad interpretare meglio le situazioni, le sensazioni, e a dare un nome al dilemma stesso. La funzione della fiaba, quindi, almeno da un punto di vista psicanalitico, è di tipo ermeneutico poiché è in grado di interpretare criticamente la fenomenologia dell’evento umano, un evento che prende origine dal nostro vissuto ed ha quindi una ricaduta sociale ed ha una ricaduta su tutti i suoi “derivati culturali”. La paura, ad esempio, è un tema centrale e paradigmatico che si concretizza, ricorda ancora Franco Cambi in Mostri e paure nella letteratura per l’infanzia ieri e oggi, nella paura ancestrale dell’Adulto-Maschio o del Padre-Nemico che ci domina e ci controlla e spesso ci punisce. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un modello narrativo introspettivo un modello che lavora a livello di inconscio, in quanto il testo diventa l’analisi del proprio vissuto e come tale riattiva le procedure ermeneutiche già enunciate trasformando i contenuti fiabici in oggetti immaginifici ma al contempo reali, che formano il lettore e lo nutrono da un punto di vista sia affettivo che cognitivo. Lo stesso Bruno Bettelheim rivendica il carattere catartico, purificatore della fiaba, pensando che le paure, i terrori, non sono esterni a noi e tantomeno ai bambini ma sono paure interne, sono paure di rapporto con il mondo sconosciuto sono paure della propria impotenza fisica, della dipendenza dagli adulti. Riuscire a trovare nel racconto una collocazione alle proprie sofferenze e inquietudini può restituire un equilibrio emotivo soprattutto ai più piccoli, per i quali la narrazione fiabica è pensata e realizzata (almeno a partire dall’Ottocento). Come medico e terapeuta di bambini affetti da gravi turbe mentali, Bettelheim ha sperimentato molteplici strategie per ridare equilibrio e tranquillità agli insidiosi mondi inquieti che abitavano le menti dei suoi giovani pazienti e reinserire le loro vite, le loro esperienze, all’interno del linguaggio narrativo della fiaba – i personaggi fantastici, le loro avventure, i luoghi incantati dove si muovono maghi e streghe – ha restituito un orizzonte di senso al personale travaglio interiore. Perché nella fiaba c’è un archetipo esistenziale che ricompare, in maniera ricorsiva, quasi per magia… la perfetta simmetria tra esperienze emotive reali e quotidiane (la paura, il disagio, il senso dell’abbandono, il tragico, ecc..) e i travagli straordinari vissuti da principi, regine e poveri contadini al contempo. La malasorte non risparmia nessuno: poveri o ricchi. Un aggancio intra-psichico perfetto tra esperienza reale e quella virtuale. Ma c’è un altro orizzonte da esplorare, che si snoda e si muove tra il fantastico, il letterario ed il pedagogico ed è lo sguardo filosofico sul mondo incantato di cantori e novellieri,        dove l’estetica narrativa si offre come elemento indispensabile per la crescita emotiva dei più piccoli.

LA FILOSOFIA E IL CIBO  In estrema sintesi per la Filosofia occuparsi di cibo è una cosa scontata. Perché esiste uno stretto legame tra la scienza del pensiero e l’azione concreta del mangiare. Parola di filosofo e di Etica sociale, Filosofia del dialogo e Antropologia filosofica all’Università Cattolica di Milano che ha appena pubblicato il saggio “Filosofia del cibo” (Castelvecchi editore). «Il fatto che la filosofia si occupi dell’alimentazione è un passaggio quasi obbligato – si osserva– Fin dalla sua origine questa scienza si è interessata al rapporto dell’uomo con il suo corpo e, di conseguenza, con il cibo. Il tema inizia a farsi strada con la teoria socratica che limita la dimensione umana alla sola anima. Platone riprende questo concetto nel Fedone, considerando vita vera solo quella fuori dalla prigione del corpo. Al contrario, quando Epicuro elabora la teoria del piacere, s’immagina persone sagge che passano il loro tempo banchettando in campagna e parlando di filosofia. La filosofia si occupa del cibo perché si occupa del corpo e di cosa sia l’umano». Riva propone una rassegna delle posizioni principali che la filosofia ha assunto nei confronti dell’alimentazione, in particolare dall’Ottocento in poi. Quasi una “Storia della Filosofia contemporanea del cibo”. «Si sono sempre confrontate due scuole di pensiero. La prima contrappone lo spirito al corpo (e al cibo) e diffida della dimensione materiale. Una rappresentante di questa corrente è Simone Weil. Per la mistica francese, il corpo è un animale che deve essere educato alternando le frustate alle zollette di zucchero. La seconda posizione è quella di chi considera l’uomo anche come corpo e in quest’ottica rivaluta il cibo. A tal proposito si può citare Feuerbach, autore de “Il mistero del sacrificio”, il cui sottotitolo non a caso è “L’uomo è ciò che mangia”». La filosofia si è quindi sempre divisa sul rapporto che intercorre tra corpo (e cibo) e anima. Riva ritiene comunque possibile una mediazione tra i diversi atteggiamenti attraverso un modo di pensare attento al vissuto del corpo e del cibo: «La prospettiva fenomenologica considera il corpo come un compagno di vita. Questa teoria si colloca in equilibro tra la concezione platonica del corpo bestiale e l’idea dell’uomo come pura materialità. Le diverse dimensioni dell’uomo (fisica e spirituale) si riconciliano nell’idea che vivere è essere incarnati. Questa concezione, però, pone nuove questioni di responsabilità. Novalis e Goethe, dato che mangiare è indispensabile, credono che si configuri necessariamente come gesto aggressivo nei confronti degli altri: o vivo io, o vivi tu. Se questo è il principio, se il mangiare è un bisogno che fa diventare distruttori e assassini, allora non è possibile alcun discorso sulla responsabilità e sull’etica. Credo invece che la filosofia debba interessarsi all’alimentazione anche da un punto di vista morale. Il cibo è allo stesso tempo quanto di più semplice e quotidiano, ma anche quanto di più importante possa esserci. Sartre dice che l’uomo fa l’assoluto mangiando. Ha ragione: l’uomo è sempre uomo (oppure non lo è mai) anche quando mangia». Riva spiega che la filosofia ha tre vie di azione per rispondere alle sfide che la società contemporanea mette in campo. «In primo luogo deve denunciare le contraddizioni, pratiche e teoriche. Una di queste è il circolo vizioso che ci vuole contemporaneamente grassi e magri, obesi per l’abbondanza di cibo di qualsiasi genere e in forma per il ritorno al mito del salutismo. Per usare un’immagine biblica, noi viviamo contemporaneamente nella stagione delle vacche grasse e delle vacche magre. La filosofia deve denunciare questa incoerenza, altrimenti rischia addirittura di giustificarla correndo dietro ora al gusto ora alla salute». La seconda via d’azione è rilevare l’ironia nel rapporto tra filosofia e cibo. «Questa strada mette in luce le assurdità che vengono dette sull’alimentazione senza che siano mai contestate e messe in discussione. La filosofia deve fare ironia anche su stessa e su quello che ha detto sul cibo. Il sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel sostiene ad esempio (un po’ come Platone) che esiste un mangiare quotidiano e operaio: serve semplicemente a sostentarsi nella fatica del lavoro e non ha altro valore che questo. Per il sociologo il cibo diventa umano solo quando lo si consuma a una tavola imbandita e in compagnia di commensali borghesi e intellettuali. Non si può che ridere con amarezza di questa opinione, da un lato perché il convivio e la tavola imbandita non garantiscono in anticipo nessuna umanità del mangiare intesa come responsabilità e dall’altro lato perché il cibo del lavoro ha una dignità umana altissima. La terza via che la filosofia può praticare è quella della responsabilità nei confronti del mondo, degli altri e della giustizia. «Sarebbe ipocrita se la filosofia e la morale non s’interessassero all’alimentazione. Il cibo ci pone di fronte a grandi questioni globali e ci costringe a prendere sul serio la nozione di corpo. L’alimentazione ci ricorda costantemente che siamo un corpo e che dobbiamo rapportarci con gli altri esseri viventi, con i territori, con le risorse naturali. Il cibo porta a chiedersi se vivere voglia dire aggredirsi reciprocamente per sopravvivere. Stare cioè in una guerra alimentare perpetua per assicurarsi territori e monopoli del cibo. Mangiare ci mette di fronte a una quotidianità vissuta e intensa». Nel mondo contemporaneo il singolo è sottoposto, anche in campo alimentare, a continue pressioni e sollecitazioni. Vedi problemi mondiali e sanitari quali l’obesità, la bulimia, l’anoressia. Ognuno di noi ha poco potere perché si ritrova all’interno di uno stile di vita che, in sostanza, non sceglie. «Occorre una presa di coscienza individuale, ma soprattutto una presa di coscienza collettiva. Servono pratiche, politiche e scelte di vita comuni diverse. Il singolo deve essere tanto al punto d’inizio quanto al punto d’arrivo di questo processo, in un’ottica di convivenza democratica, partecipata e trasparente anche dal punto di vista nutritivo». La filosofia serve così anche a introdurre stili alimentari coerenti, cambiamenti nella vita di tutti i giorni. «Solitamente in filosofia i riferimenti all’alimentazione vengono usati come esempi per spiegare questioni più ampie. Perché invece non rovesciare il discorso? È proprio il quotidiano che ci deve interrogare sui massimi sistemi, non viceversa». E qual è la scelta alimentare del filosofo? «Potrei definirla “la dieta dell’orso”: onnivora, di qualità, con prevalenza di vegetali. Prodotti biologici e biodinamici, frutta e verdura di stagione e un consumo contenuto di carni. Con lo studio di questi argomenti ho incontrato il pensiero buddista secondo cui non si deve fare male a nessun essere vivente; per me potersi nutrire senza fare violenza è comunque un simbolo interessante da tenere nella massima considerazione». Non esiste forse comportamento più carico di simbolismo di quello alimentare: atto sacrale, momento di socializzazione, espressione culturale ma anche fantasia, emozione, memoria. Parlare di alimentazione è, in qualche modo, parlare dell'uomo nella sua interiorità, nella sua storia, nella sua religiosità, nella sua identità eticosociale. L'alimentazione oggi, per la sua stessa complessità, diventa cartina di tornasole per testimoniare costumi, stili di vita, scelte morali, appartenenze, reciproci riconoscimenti, rapporti con il proprio corpo, la terra e le altre specie, consapevolezza di nuovi diritti e di inedite responsabilità Per questo la bioetica è chiamata in causa. Proprio per la sua natura interdisciplinare può costituire la prospettiva più adeguata per affrontare tale problematica in quanto prevede il confronto e l'integrazione di diverse prospettive: medicosanitaria, psico-sociale, giuridicoeconomica, etico-normativa. Una bioetica dell'alimentazioneeccellente esempio di bioetica del quotidiano oltre a riguardare l'individuo in primo luogo come cittadino, coinvolge diversi soggetti (famiglie, scuole, istituzioni, gruppi di interesse, associazioni di consumatori, organizzazioni non governative etc.) per stimolarne la partecipazione attiva alle scelte collettive e promuovere una riflessione ad ampio raggio su temi quali la sicurezza e le sue garanzie, la valutazione del rischio, il diritto all'informazione, il principio di precauzione, la libertà di scelta, il ruolo dell'educazione. Per fare una riflessione in estrema sintesi: …dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei!....frico, polenta, cjarsons, gubana, zuf, toc in braide..l’intingolo preferito dai Guaruts…..                                                             

Riferimenti bibliografici: Rossella Certini pedagoga Bettelheim B., Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 1984. Calvino I., Introduzione, in Grimm. Fiabe, Torino, Einaudi, 1970. Calvino I., Sulla fiaba, Torino, Einaudi, 1985. Cambi F. (a cura di), Itinerari nella fiaba. Autori, testi, figure, Pisa, ETS, 1999. Cambi F. (a cura di), Mostri e paure nella letteratura per l’infaniza di ieri e di oggi, Fire- nze, Le Monnier, 2002. Jung C. G., L’uomo e i suoi simboli, Milano, TEA, 1991. Marcheschi D., Tutti amici di Cappuccetto Rosso, in Il Sole24ore domenica, 18 dicembre 2016. Lavi-Strauss C., Antropologia strutturale, Milano, Il saggiatore, 2009. V. J. Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966. V. J. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, Roma, Newton Compton, 1977.Rocca E, L’arte di raccontare storie ai bambini, “MicroMega”, 5/2000. Von Franz M-L., Le fiabe interpretate, Milano, Bollati Boringhieri, 1980. Italo Calvino “Le fiabe Italiane” Mondadori Editore vari studi di Etica sociale, Filosofia del dialogo e Antropologia filosofica all’Università Cattolica di Milano

Grazie per la cortese attenzione il GUARUT (lo sbilf golosone)

 

Bioest 2025  8 e 9 giugno Trieste

Evento: 5/7 - 12/14 settembre Asiago (VI) (partecipiamo dal 2015)

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