Casera Cucco

Casera Monte Cucco di Sopra

 

  • Località: 33022 Arta Terme
  • Descrizione: https://camminateinfriuli.altervista.org/tipo/difficolta/medi/321-monte-cucco.html
  • Accesso alla malga: Mulattiera praticabile con mezzi fuoristrada
  • Proprietario: Comune di Arta Terme Ente di Decentramento Regionale di Udine
  • Quota (m.s.l.m.): 1683 m
  • Ristoro: No.
  • Indicazioni: Dalla Pieve di San Martino, superata la Casera Valmedan di Sotto, la strada prosegue in un fitto bosco, poi si inerpica con stretti tornanti verso Malga Valmedan di Sopra. In prossimità di quest'ultima, si prosegue a piedi verso il M.te Cucco (1804 m)
  • Coordinate: - 46.50269966597614, 13.056819219092825

IL LAGO DI MONTE CUCCO - IL BEC D’AUR Il caprone d'oro

Il bèc d’àur (il caprone d’oro) Leggenda che si racconta ancora ai bambini dagli adulti di Valle e Rivalpo nel comune Arta Terme. Questa leggenda indica una località a tutt'oggi esistente che si trova a qualche chilometro dalla Malga Cucco: località Cjarsovalas.

Se si visita la chiesa di S. Martino sita su un'altipiano proprio al confine tra i due paesini di Valle e Rivalpo si trova la campanella in bronzo appesa sulla porta della sacrestia che avverte dell’ingresso in chiesa del sacerdote, per l’inizio delle funzioni religiose.
La valle del Chiarsò nella quale sorge il Comune di Paularo viene chiamata anche valle di Incaroio. Un nome anche questo probabilmente storpiato nella traduzione dalla lingua locale carnica. Il termine locale Cjaròi infatti, doveva semmai venir tradotto con Caroio. Ma la frase andare “in Cjaròi” per significare l’andare nella valle del Cjaroi, credo alla fine abbia dato luogo alla storpiatura per cui oggi ci troviamo a parlare della valle d’Incarojo invece che di quella del Caròio. Ma comunque la si voglia chiamare la valle di Paularo, l’etimo di Cjaròi nella parlata locale è chiaramente di derivazione celtica.
La conferma indiretta viene dal fatto che in nessuna valle della Carnia si sono trovate evidenti tracce della presenza dei Celti come in questa, in particolare con il ritrovamento del cimitero celtico di Misincinis. È quindi logico che nella tradizione orale di questa valle ci siano molte leggende che si richiamano espressamente al periodo celtico. Fra queste la più famosa è senza dubbio quella del bèc d’àur caprone d’oro che si racconta a Valle e Rivalpo.
Anche di questa leggenda non c’è una versione unica, ci sono varianti diverse che concordano tuttavia su alcuni elementi. L’elemento comune è il fatto che gli altopiani di mezza montagna in destra del Chiarsò erano un tempo abitati dai Pagàns. È questo il nome con il quale i conquistatori romano-cristiani, chiamavano gli ultimi residui del clan celtici, che continuavano a vivere la loro cultura e la loro religione isolati sulle montagne. In molte zone della Carnia ci sono delle grotte denominate dei Pagàns o Salvàns, a ricordo degli ultimi gruppi di pagani o selvatici uomini dei boschi che vi hanno abitato. Solo nella valle del Cjarsòi tuttavia, si raccontano delle leggende espressamente riferite a queste persone.
Si racconta dunque a Valle Rivalpo che sopra il paese, in località Chiaserualis c’era un villaggio, del quale si possono ancora vedere i resti, abitato dai Pagàns. Un villaggio analogo sorgeva nei pianori di Pornescis, sopra il paese di Cleulis al di là del rio di Valle. Quello di Cjaserualis era il villaggio celtico più importante della valle perché oltre al solito villaggio con le case dai tetti di paglia, aveva un grande castello. Già questo fatto sarebbe stato sufficiente a distinguerlo dagli altri villaggi, ma il fatto straordinario era che il castello non era stato costruito da mani umane, e che non vi abitavano degli umani. Era stato portato lì da non si sa dove, da essere ultraterreni... Un po’ come si racconta per la casa di Nazareth portata dagli angeli a Loreto. Vi abitava un caprone d’oro, o rivestito d’oro. Qui i racconti si differenziano. Secondo gli abitanti Valle che sono più portati ad esagerare il Bèc era proprio interamente fatto di oro, secondo gli abitanti di Rivalpo, più realisti il caprone era un vero animale, con il pelo fatto di fili di oro. Che tra le due borgate ci siano due versioni diverse, risulta più che naturale, se si pensa che neppure sul nome della località hanno la stessa versione, ciò che a valle è Cjarsovalas a Rivalpo diventa Cjarasualas. Per non far torto né agli uni né agli altri, nel racconto si userà d’ora in poi il termine di Chiaserolis, usato da V.Lazzarini (storico) che all’inizio del secolo scorso è stato il primo a studiare i resti del villaggio.

Comunque, lasciando perdere la disputa sul nome, nel merito, onestamente, non ce ne vogliano gli abitanti di Valle! sembrerebbe più credibile l’idea di un animale con il manto d’oro. Se così fosse gli studiosi troverebbero un interessante spunto di ricerca per provare a capire come sia possibile che in una valle della Carnia, si sia diffuso lo stesso mito del vello d’oro che secondo la mitologia greca si trovava nella Colchide, nell’attuale Asia Minore, e che fu rapito da Giasone e Medea. Un collegamento che intriga pur non potendosi considerare studiosi della materia.
Guarda il caso! Studiare all’Università il mito di Medea che rapisce il vello d’oro, per poi ritrovarsi da quasi vecchi sui monti della Carnia, con lo stesso mito! ...
Perché, caso vuole, che anche la leggenda della valle del Cjaròi si sviluppi sul tema del rapimento del vello d’oro, o del béc fatto d’oro. Comunque, anche per la gente di Valle che lo credevano fatto d’oro, il béc non era una semplice statua, ma un essere soprannaturale vero e proprio. Tutte le tradizioni orali convengono sul fatto che si trattava di un essere straordinario che proteggeva i Pagàns, privilegiando come è evidente la gente del villaggio dove risiedeva. Aveva una particolare virtù, si diceva che favorisse la fecondazione delle donne...Forse era soltanto una diceria, ma sta di fatto che tutte le famiglie di Cjarsevualis avevano nove o dieci figli, mentre la gran parte delle donne di Pronescis non avevano figli. Se non si fosse invertita la tendenza, era in pericolo la stessa sopravvivenza del villaggio, per questo ai locali di Pronescis, "ad estremi mali estremi rimedi!" venne l’idea di rapire il Béc d’àur, per portarlo nel proprio villaggio.
Nel mito greco Medea si mosse accompagnata dagli Argonauti per rapire il vello d’oro custodito da Creonte. La popolazione di Pornescis si mosse in massa, uomini e donne, con tutte le armi di cui potevano disporre, guidati dal loro Druido (sacerdote celtico) Attraversarono il rio Valle di notte per prendere di sorpresa nel sonno gli abitanti di Chiarsevualis. Ma i locali di Chiarsevualis avevano il bèc d’àur che da essere soprannaturale qual era, intuì il pericolo e nella notte prese a suonare all’impazzata la campanella che, dalla torre più alta del castello, di solito suonava al far dell’alba e quando le prime ombre del tramonto si distendevano sulla valle. Il Druido che s’era recato al castello a chiedere il perché di quell’allarme, venne informato del pericolo che stava correndo il villaggio ed organizzò immediatamente una spedizione che si mosse per fermare gli autoctoni di Pornescis, prima che si potessero avvicinare alle casupole usate come abitazione per incendiarle....
Secondo una delle versioni lo scontro avvenne dove oggi sorge la malga di Albareit (dal latino), che prenderebbe il nome dal biancore che si notava anche da grande distanza dove oggi si stendono i pascoli della malga, che era dato dalle ossa dei cadaveri della carneficina in cui era finita la battaglia. Secondo un’altra versione invece lo scontro avvenne sui prati di malga Plombs e mentre “nel castello il Bèc d'àur assisteva allo scontro fra i Pagans l'ira crebbe in lui. Come potevano quei miseri uomini pretendere di trattare un dio come se fosse qualcosa di loro proprietà? Così il Bèc d' àur si animò ed uscì dal castello per punire la presunzione degli uomini. Corse verso il crêt che sovrastava Cjaserualis, e con i colpi delle sue potenti corna fece saltare in frantumi la roccia, questa franò improvvisamente con un enorme boato, e precipitò sul campo di battaglia uccidendo gran parte dei Pagans impegnati nello scontro. Anche il castello fu travolto e distrutto in un solo istante, con tutte le sue mura che avevano sfidato intatte i secoli.
Confessiamo, questa seconda versione non convince... La malga Plombs e il crepaccio che si sarebbe formato per l’ira del bèc che ha frantumato la montagna, si trova oltre il villaggio di Chiaserolis per chi viene da Pronescis. Se veramente dovesse essere questa l’origine del crepaccio, cioè l’ira del Bèc d’àur per la guerra tra pagàns, si dovrebbe supporre che ci sia stato un altro assalto a Chiaserolis da parte degli abitanti del villaggio di Ciagnòn situato sull’altopiano sopra l’attuale abitato di Cabia. Con quelli di Ciagnòn gli abitanti di Cjarsevalis, avrebbero potuto incontrarsi a metà strada nei pressi di Suart, e lì il Bec d’aur avrebbe potuto mandare in frantumi la roccia dando luogo al crèt di Plombs, tuttora visibile, ma non con i locali di Pronescis che erano dall’altra parte...
Se anche nei Vangeli ci sono quattro diverse versioni di come gli apostoli hanno scoperto che Gesù era risorto, non deve far meraviglia che ci siano delle imprecisioni su come sia finita la guerra tra Chiaserolis e Pronescis...L’unica cosa certa è che oltre malga Plombs c’è un crepaccio che si sarebbe formato a seguito della cornate del Bèc d’àur.
“Credere o lasciare”, solevano dire i nostri nonni. Tutti concordano invece sull’ultima parte della leggenda nella quale si racconta di come dopo questa battaglia fratricida, i pochi superstiti si dispersero sulle montagne della Carnia, nei boschi e nelle caverne tanto è vero che le madri minacciano i figli più irrequieti dicendo loro "Cjale che vegnin i Pagans e ti puartin vie se no tu fâs il brâf" (attento che vengono i pagani ei ti portano via se non fai il bravo)..
Il Bèc d'àur offeso per quanto avevano fatto dai Pagans non tornò più fra gli uomini e tutt'ora vaga per le montagne senza che nessuno lo possa mai incontrare. Camminando lascia impronte profonde nel terreno e dove si ferma a riposare la sua sagoma rimane segnata sull'erba bruciata dal potere che emana il suo corpo. Ogni tanto i malgari trovano queste tracce e sanno che sono quelle del Bèc d'àur che un tempo viveva nel castello di Cjaserualis.
A conferma che si tratta d’una storia vera e non di una leggenda gli abitanti sia di Valle che di Rivalpo sono concordi nel sostenere che, nel rio Plombs, così è chiamato il primo tratto del rio Pòi, affluente del Chiarsò, dove è stata trovata la campanella che dalla torre del castello, suonò l’allarme nella famosa notte dello scontro. Come già detto la si può ancora vedere nella chiesa di S.Martino. E’ la campanella in bronzo sulla porta della sacrestia che avverte dell’ingresso in chiesa del reverendo, per l’inizio delle funzioni religiose. Qui comunque, con la testimonianza di questa campanella, finiva il racconto, con il Bèc d’àur disperso non si sa bene dove sulle montagne della Carnia. Sarebbe finito così anche questo racconto, se non avessimo per caso incontrato a Rivalpo la Sèpe che di storie ne sapeva a bizzeffe. Era una vecchietta dall’età indefinibile. Molto piccola, con il viso che faceva pensare ad un teschio sul quale si fosse rinsecchita la pelle come si vede nelle mummie di Venzone. Il suo corpo, rimasto quello d’una bambina di dieci anni, era stato anche rattrappito ed ingobbito dalla vecchiaia, per cui sembrava ancora più piccola. Non una donna, ma uno dei “piccoli uomini” che anche secondo le leggende che lei andava raccontando, vivevano in Carnia ancor prima dei Carni. Abitava in una casupola sopra al paese, che sembrava fatta a sua misura. Entrando, che pure noi che non sono prettamente alti, veniva istintivo di abbassare la testa per non correre il rischio di incocciare nel soffitto.
. Nella piccola casa si recavano di continuo in visita delle giovani coppie. Secondo quel che mi ha raccontato la Sèpe, il bèc d’aur vive ancora a Chiaserolis nella dimensione dell’invisibile, ed ha conservato tutti i suoi poteri nell’aiutare le donne ad avere figli. Mi ha riportato così una serie di casi di giovani coppie che da anni non avevano figli, che avevano provato ad interpellare i più grandi specialisti in ginecologia senza alcun risultato, e che seguendo il suo consiglio erano andati a copulare nel bosco tra i resti del villaggio di Chiaserolis, bevendo l’acqua del rio Plombs e immancabilmente dopo nove mesi erano venute a ringraziarla accompagnate dal pianto d’un infante in fasce. Le avevamo portato in regalo una bottiglia di grappa perché ci dissero che le piaceva e che la facilitava nel racconto. L’aprì ne bevve a canna alcuni sorsi. Ma ancora non si decideva a rispondere alle domande su quanto sapesse a proposito del Bec d’aur e ci tenne sulle spine per oltre un quarto d’ora. Poi, finalmente, come se quel distillato di vinacce fosse riuscita a liberarla d’un groppo che teneva in gola: “Non è nulla la leggenda del rapimento del Bèc, che già saprete,” prese a dire, “a confronto del suo seguito”.
“Quale seguito?” la incalzammo curiositi. Prese così a raccontarmi di come non sia vero che il Bec d’aur abbia abbandonato Valle e Rivalpo, e di rimessa ci ha dato la spiegazione sul perché nella sua versione “Ma un giorno solo a copulare in Chiaserolis?” abbiamo dovuto nostro malgrado interromperla stupiti, “per risolvere tutti i problemi di fecondazioni assistite, o eterologhe! Te l’immagini avremmo frotte di gente da tutto il mondo!” “Io non so cosa sono queste fecondazioni “estrologhe”, ribatté lei imperterrita e indispettita “e mi darebbe anche fastidio che la gente accorresse a frotte a Valle Rivalpo, io ho solo detto come stanno le cose...”
“Ma perchè tu non hai ricorso alla fecondazione del Bèc d’àur?” la si provocò, sapendo che non aveva avuto figli. Ci si vergognò di noi stessi, per la battuta infelice. Ma oramai era uscita di bocca. Lei non parve particolarmente offesa, ci rispose tranquillamente che il Bec d’aur non è lo Spirito Santo, ci vuole comunque un uomo, perché la sua l’influenza abbia effetto, e lei era invece come Maria Vergine che per tutta la vita non aveva conosciuto uomo.
Quasi a chiedere scusa per la impertinenza, dimostrando interesse per il racconto le si chiese se bastava una visita a Chiaserolis per godere del miracolo. “No!” mi rispose precisa e convinta, guardandoci fisso negli occhi, quasi a sfidare la incredulità. Si deve tornare per quindici giorni di seguito. E dopo aver copulato la donna deve bere dell’acqua ferruginosa alla sorgente che si trova sotto i “ciampùs” i piccoli campi, che non sono altro che le tombe del cimitero dei Celti...
L’aggiunta che la Sèpe faceva alla leggenda corrente, ci aveva confermato nell’idea che quella del Bèc d’aur fosse la leggenda più importante dei Carni, che in qualche modo collegasse la cultura celtica a quella greca. Desiderai quindi sentire al riguardo il parere di Diver Dalce, originale autore che è riuscito ad inventarsi la storia di un soggiorno in Carnia nell’antichità, dello stesso Pitagora.
In questo particolare racconto, parla in prima persona il Professor Igino piutti...L’ho trovato che stava rovistando nella campagna dietro alle case del paese di Misincinis, per trovare conferma d’una sua teoria nella quale la leggenda del Bec d’àur aveva un riferimento di assoluto rilievo. “Scusi,” gli chiesi a bruciapelo, “Lei che ha persino immaginato Pitagora tra queste montagne cosa mi dice d’una possibile relazione tra le leggende del Bèc d’aur a Valle Rivalpo e del Vello d’Oro in Grecia?”. All’udire la mia domanda, si fermò di scatto, come se qualcosa l’avesse ferito. Aveva in mano una punta di freccia e prese a pulirla. Puliva la freccia e mi parlava, come se la sua attenzione fosse rivolta alla freccia e non alle parole che mi diceva. “Lei è più intelligente di quanto può sembrare!” Iniziò. Non risposi e non mi offesi perché sapevo che per parlare con lui si dovevano subire gli attacchi della sua originalità e lo lasciai parlare, lasciando partire il registratore. Risentendo le sue parole, uno sproloquio più che un racconto, ho pensato che fosse finito per dar di matto come l’architetto dei suoi romanzo sui Celti. Comunque senza assumermi nessuna responsabilità, solo per dovere di cronaca, mi pare giusto riportare ciò che mi ha detto.
...A suo dire, in epoca preromana il collegamento tra la Grecia e l’Alto adriatico era un fatto normale. Per i collegamenti con le cave di sale di Halstatt e della Baviera, si preferiva il collegamento via mare, più agevole rispetto alle difficoltà che avrebbe comportato l’attraversamento a piedi dell’attuale penisola balcanica. Si risaliva poi il corso del Tiliaventus e quindi quello del Chiarsò per poi attraversare le Alpi al passo di Meledis. Se si conviene su questa teoria è evidente l’importanza che sin dall’antichità più remota aveva la valle del Cjaròi, la valle di sosta prima dell’attraversata delle Alpi. Per questo assieme ai Carni si insediarono nella valle delle colonie greche, e fra queste la più famosa fu quella che si insedio sull’altopiano ai piedi del monte Tersadia. Anche questo nome è stato storpiato. Si chiamava a quei tempi Tessaglia, a ricordo della regione della Grecia da cui erano arrivati i coloni, e il vello di Chiaserolis è lo stesso della storia di Medea!
Questa poi !” non riuscii a far meno di esclamare e con l’esclamazione chiusi il registratore pensando che il mio interlocutore fosse entrato in una seria fase psicotica.
Ma ripensando poi a ciò che mi aggiunse, a registratore spento, mi pentii d’averlo fatto. Avrei potuto documentare almeno la fantasia senza limiti di Diver...
Mi portò a ragionare sul fatto che le case del villaggio erano a base rettangolare, mentre quelle celtiche, come si vede bene sul monte Sorantri a Raveo sono rotonde. E questo, a suo dire era sufficiente a dimostrare che il villaggio non era celtico.
Mi ricordò come nella leggenda greca si dica che Giasone e Medea tornando dalla Colchide, puntiti da Giove, smarriscano la rotta e finiscano nell’Adriatico per poi risalire il Po e attraverso il Rodano raggiungere la Liguria e poi la Sardegna e infine il Monte Circeo, per purificarsi presso la maga Circàe. Secondo Diver i trascrittori non conoscendo la geografia fecero un errore i georeferenziazione. In effetti i fiumi percorsi, uscendo dall’Adriatico, sono proprio il Tiliaventus e il Cjaròi, e la maga Circe abitava nel lago che c’era a quel tempo sulla cima della montagna del Cucco proprio dirimpetto al Tersadia. Lassù Giasone e Medea furono purificati dalla maga Circe per gli omicidi che avevano commesso, e in segno di gratitudine, lasciarono agli abitanti di Chiaserolis che li avevano ospitati un pezzetto del vello d’oro che aveva la virtù di favorire la fecondità delle donne, ma anche degli animali e di tutta la natura.
Quando ci si lascia prendere dalla fantasia e la si mescola all’amore per l'appartenenza del territorio, si finisce per immaginare l'attinenza del proprio paese al centro del mondo. In questa ottica si può capire la ricostruzione fantastica di Diver. Anche se, a dir il vero, anch’io ho trovato qualche riscontro nei racconti che mi ha fatto la Sépe legati alle montagne di Valle Rivalpo.
Anche lei infatti mi disse che sul monte Cucco c’era un lago. Il monte sarebbe stato un vulcano, come ce ne sono altri al mondo, il cui cratere era riempito d’acqua a formare un lago. Poi a seguito d’un terremoto s’era spezzato un lato dell’argine e l’acqua era precipitata portandosi dietro la montagna, dando origine ai crepacci del Lander, e travolgendo infine il municipium romano di Iulium Carnicum. Anche la Sèpe mi raccontò che sulle acque del lago del monte Cucco, si nascondeva una fata Marie Svualde diventata poi: Aganute buine che presidiava e proteggeva il luogo contro il male. Qualcuno giura di vederla ancora oggi di tanto in tanto uscire a prendere il sole come fanno ora le colonie di marmotte che numerose popolano la conca dalla  quale sorgeva il lago. Una fata che sembra sia scesa in forma d’angelo ad avvertire gli abitanti di Zuglio del pericolo incombente. Ma anche allora, come adesso non si credeva né alle fate né agli angeli, per cui quando l’onda del lago si precipitò sul paese distrusse le case e travolse tutti gli abitanti, come il 9 ottobre 1963 capitò al paese di Longarone, Erto e Casso, travolto dall’onda del lago artificiale del Vajont invaso da una enorme frana (già citato da Catullo per la vulnerabilità del territorio carsico) Resterebbe il problema di spiegare come il termine Circe sia stato storpiato fino a diventare Cucco, ma se Cjaròi e diventato Incarojo tutto è teoricamente possibile.....

Liberamente tratto da: leggende dei Carni di Igino Piutti Pubblicato da Piutti Prof. Igino 2001


 

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