cucina paesana

Le Alpi rappresentano ancora oggi un interessante spazio abitativo con spiccati caratteri di laboratorio etnografico, per le informazioni di carattere antropologico che custodiscono gelosamente da secoli.

Cultura e Tradizioni delle Comunità Alpine

Le Alpi rappresentano ancora oggi un interessante spazio abitativo con spiccati caratteri di laboratorio etnografico, per le informazioni di carattere antropologico che custodiscono gelosamente da secoli. Nonostante i cambiamenti profondi negli stili dì vita che si sono verificati negli ultimi cinquanta anni e che hanno introdotto abitudini sempre più omologate alle società urbane dell'Occidente, l’interpretazione attenta delle forme del paesaggio rurale rivela un mosaico di tratti culturali strettamente legati alle pratiche di insediamento delle varie comunità valligiane.

Il turismo di massa ha ormai cancellato molti residui culturali della tradizionale società alpina, ma numerosi sono ancora i segni materiali e simbolici che si possono incontrare visitando le valli, gli altipiani, gli alpeggi, i villaggi di un territorio che costituisce la cerniera geografica tra le grandi famiglie linguistiche dell’Europa (latina, germanica e slava). L’osservazione dello spazio alpino sotto il profilo socio-culturale è perciò di grande importanza perché consente all’osservatore attento di oltrepassare i soli aspetti naturali, che soprattutto hanno catturato l’attenzione degli avventurosi viaggiatori alpini del Grand Tour, contribuendo a rappresentare un’immagine riduttiva delle Alpi, come mondo marginalmente modificato dall’uomo e perciò dominio incontrastato delle forze della natura. Anche nell’interessante resoconto di viaggio Voyages dans les Alpes (1789), lo scienziato ginevrino Horace Benedict De Saussure, nel raccontare di una «sentinella tedesca del Monte Rosa» (i Walser), non coglie però tutta la rilevanza etnografico-antropologica di questi insediamenti nella costruzione del paesaggio culturale. L’interesse per la Natura pone in secondo piano la dimensione umana del vivere nelle Alpi perché ai grandi fenomeni naturali è attribuita la funzione principale di modellamento del paesaggio.

Se invece osserviamo con maggiore attenzione e circospezione l’ambiente alpino vediamo che esso ci comunica, entro certe fasce altimetriche, la presenza decisiva dell’uomo come costruttore del paesaggio. La frequentazione umana delle Alpi risale infatti in forma episodica all’ultimo periodo interglaciale (tra la glaciazione di Riss e quella di Wurm - poco meno di centomila anni fa), ma è con la fine del neolitico che il territorio delle Alpi si apre all’azione diretta e continuativa dell’uomo.  I modellamenti morfologici prodotti dalle glaciazioni hanno creato, dopo il ritiro delle grandi calotte glaciali, spazi relativamente ampi soprattutto nelle fasce alte della montagna. L’espandersi progressivo della vegetazione (seppure con un dinamismo rallentato rispetto alle terre basse) ha contribuito a suscitare un interesse crescente verso le terre alte tra le popolazioni poste ai margini dello spazio montano. Pertanto le occasionali incursioni di cacciatori e raccoglitori alla ricerca di risorse autoprodotte dalla natura in forma spontanea vengono sempre più integrate da tentativi di adattamento sedentario da parte di gruppi umani decisi ad imboccare la strada dell’addomesticamento della natura (animali, piante e terreni). Nell’epoca che i paleontologi chiameranno “rivoluzione del neolitico” (circa 5000 anni a.C.) questo processo di addomesticamento interesserà soprattutto le zone più favorevoli alla residenzialità a causa delle caratteristiche climatiche e per la presenza di ripari sotto roccia dove dimorare. Le Alpi Liguri e Marittime, che si estendono dalle alte creste spartiacque fino alle più miti fasce rivierasche (dove presentano una grande ricchezza di anfratti conosciuti in tutte le Alpi occidentali con i nomi di baus, balma, barma, barmasc, arma, armetta) hanno rappresentato le prime significative dimore nello spazio-alpi delle “Comunità Alpine”.

Da qui inizia quel lungo tormentato cammino dell’uomo che ha portato alla nascita della «cultura alpina». Le variazioni cicliche del clima hanno determinato successi ed insuccessi nell’opera di insediamento demografico sulle Alpi generando, a fasi alterne, avanzamenti ed arretramenti sensibili. Ma quale è stata veramente la molla che in epoche diverse ha spinto gli uomini verso quote sempre più elevate? Per rispondere a questa fondamentale domanda occorre fare uno mentale di “messa tra parentesi”, di sospensione del punto di vista moderno che tende a guardare alla “montagna vissuta” dal basso, dai piatti fondovalle dislocati lungo i principali assi fluviali. Tale angolazione visuale costituisce un grave pregiudizio, uno stereotipo alimentato dalla moderna cultura urbana ed industriale, che vede la montagna come luogo disagiato e marginale nei confronti dei grandi centri decisionali posti nelle aree metropolitane e di pianura. L’interesse per i territori situati a quote elevate spiega molte particolarità etnografiche delle Alpi come la presenza “a pelle di leopardo” di sacche culturali residuali conservatesi eroicamente fino ai giorni nostri. In effetti, gli spazi sfruttabili alla testata delle valli (praterie sommitali, conche glaciali diventate terreni pascolivi etc.) hanno rappresentato, soprattutto nelle fasi calde del clima, ottime opportunità di utilizzo per un’economia alpina ormai orientata verso l’allevamento bovino, caprino, equidi (alpicoltura) collegato strettamente ad un’agricoltura integrativa su base cerealicola (segale, orzo) o verso una pastorizia transumante (di tipo ovino) verso territori secchi e aridi (pascoli magri). Per contro, i territori di bassa valle dai versanti ripidi, segnati dall’erosione e da fenomeni idrogeologici di disturbo quali alluvioni, frane, esondazioni in aree golenali precarie, hanno tenuto lontano le popolazioni per molto tempo. Anche le vie di collegamento tra gli insediamenti (sentieri, mulattiere) privilegiavano i percorsi alti per motivi di sicurezza e di maggiore facilità di accesso. Queste particolarità logistiche tendono a circoscrivere le popolazioni alpine entro perimetri etnografici ben definiti e a differenziarle sempre di più dalle popolazioni del pedemonte e della pianura.

Inoltre, il crescente interesse - già in epoca preistorica - per l’industria dei metalli (rame, bronzo, ferro), portava ad un tipo di frequentazione/colonizzazione fortemente orientata da interessi minerari. Possiamo così identificare due percorsi nel processo di colonizzazione insediativa delle Alpi: quello agro-silvo-pastorale e quello minerario. I due percorsi non si sviluppano su rette parallele, ma frequentemente si intersecano generando quel modello di “uomo alpino tuttofare” non ancorato alla specializzazione e divisione del lavoro, che ben si adattava alla microeconomia ecocompatibile delle Alpi. Le costrizioni ambientali imposte da elementi naturali instabili e mutevoli richiedevano una lotta incessante dell’uomo delle Alpi per mantenere condizioni di vivibilità in territori estremi. Di fondamentale importanza era quindi l’utilizzazione di strategie culturali (e colturali) volte a strappare alla natura spazi da addomesticare e, al tempo stesso, da riconciliare con le leggi naturali assai temute. Tra le diverse strategie culturali è utile distinguere a fini esplicativi due tipologie distinte ma complementari (dato il carattere unitario ed onnicomprensivo delle culture tradizionali rurali). Nel primo gruppo, le tecniche materiali che rendono possibile la pratica dell’insediamento attraverso il dissodamento; nel secondo gruppo, i dispositivi di natura simbolica e rituale che rendono accettabile psicologicamente una vita off limits.

L’opera di dissodamento è stata resa necessaria per creare spazi vitali nella montagna e si è imposta, soprattutto con l’avvento delle pratiche agricole, quale forma di contrasto nei confronti della natura selvaggia. La scoperta dei metalli ed il perfezionamento delle tecniche di lavorazione renderà possibile, anche se attraverso sequenze temporali distanziate, l’impiego di utensili come l’aratro e la falce, l’invenzione del giogo per l’impiego degli animali da lavoro, le tecniche di abbattimento della foresta. L’età del ferro (1500/500 a.C.) determinerà una prorompente espansione delle attività manifatturiere ed avrà nei siti alpini delle posta popolazioni e cultura alpina azioni privilegiate di produzione a causa delle grandi disponibilità di forza motrice (acqua) per il funzionamento di magli e martinetti.

Per quanto si riferisce al secondo gruppo di strategie culturali (dispositivi simbolici e rituali), l’uomo delle Alpi, che come tutti gli uomini temeva la natura, ha delegato all’immaginario collettivo la produzione di racconti mitici sulle origini della (propria) civiltà. Ha così inventato figure demoniache, gnomi e folletti, sbilfs e bestie antropomorfe, uomini selvatici, credenze magico-religiose, culti naturalistici a scopo propiziatorio ed apotropaico nei confronti delle grandi forze naturali (luci, folgori, tuoni, acque, rocce dai poteri distruttivi o terapeutici). Ha cercato di rendere accettabile il destino dandogli un senso e trasformando cosi territori terribili e apparentemente invivibili in luoghi familiari, riconoscibili all’interno di quelle mappe mentali che concorrono a formare la cultura in senso antropologico. La religiosità pagana come forma autoctona di credenza costruita in piena consonanza con un territorio simbolizzato svolgerà infatti il ruolo di stabilire i confini tra sacro e profano, tra vietato e con sentito, tra contaminato ed incontaminato, offrendo la base per la costruzione di codici comportamentali accettati e condivisi dalla comunità.

Con l’avvento dell’età romana, l’interesse per le Alpi sarà orientato più all’attraversamento rapido in direzione delle lontane contrade transalpine (obiettivi dell’espansionismo imperiale) che verso una utilizzazione residenziale. Gli insediamenti di età romana saranno posti sulle arterie di grande comunicazione tra gli opposti versanti della catena, con funzioni di accampamenti militari e di stazioni di posta. La via delle Gallie farà di Aosta una sorta di “Roma delle Alpi” in relazione con Martigny (Octodurum) e di Susa (Segusium) una base dicollegamento con l’alta valle della Durance (Briancon) verso la Provenza. Le Alpi centro-orientali si apriranno a questa penetrazione attraverso i passi retici mentre nell’estremo settore orientale l’Alpis Julia sarà la porta di accesso verso la Carniola (Slovenia).

L’assetto etnografico della regione alpina incontrata dai Romani durante la conquista delle Gallie (Cisalpina: attuale Italia settentrionale; Narbonense: attuale Francia del Sud; Celtica: attuale Francia del Nord; Belgica: attuale Vallonia) presentava una distribuzione di popoli riconducibile a tre grandi famiglie etniche: Celto-Liguri, Reti, Veneto-Illirici. I primi - risultato del sovrapporsi simbiotico dell’elemento celtico sul precedente substrato ligure - venivano ad occupare grosso modo il settore delle Alpi Occidentali dal Mar Ligure al Gottardo in entrambi i versanti della catena, con maggiori concentrazioni nell’estremo ponente ligure, in Provenza, nel pedemonte piemontese, intorno ai laghi prealpini sia dell’lnsubria cisalpina sia dell’area transalpina (Vallese, Vaudese). Essi avevano una struttura sociale di tipo tribale che escludeva il sentimento di appartenenza ad una nazionalità etnica comune (Koinè) e comportava quindi un’elevata frammentazione che li ha resi facilmente vulnerabili dai Romani.

Quanto ai Reti, presenti in alcuni territori delle Alpi Centro-orientali tra la zona del Gottard (Passo di Oberalp - Surselva) e la Carnia, concentrati particolarmente nelle due Rezie (Superiore ed Inferiore comprese le valli dolomitiche) fino al Danubio (cerniera con il mondo germanico), costituiscono ancora oggi un’incognita etnografica. La colonizzazione romana porterà in tali aree la lingua latina e l’ordinamento giuridico insieme con alcune pratiche di cultura materiale (tecniche di cagliatura del formaggio, viticoltura) determinando i limiti settentrionali della regione linguistica reto-romanza. E così pure, lungo i bordi alpini dell’alto Adriatico tra Forum Julii (Friuli), Venetia Julia, Histria, e Dalmatia, la romanizzazione dei Veneto-lllirici avrà il suo epilogo in senso geografico (se seguiamo convenzionalmente lo sviluppo dell’arco alpino nella direzione ovest-est)

La vera grande svolta etnografica delle Alpi si produrrà con la caduta dell’Impero Romano quando i suoi confini settentrionali (il limes danubiano dei popoli germanici) verranno oltrepassati verso i territori alto-bavaresi e tirolesi della Rezia. La nascente nobiltà tedesca vedrà aprirsi verso sud una serie di porte d’accesso ai terrazzi soleggiati delle Alpi. Le contingenze storico-politiche faranno sì che le istituzioni feudali laiche ed ecclesiastiche avviino una politica di attenzione nei confronti dei territori intra-alpini. La rapida diffusione dei monasteri benedettini e di ordini paralleli (Certosini) influirà decisamente nell’opera di dissodamento di foreste e paludi innescando una trasformazione demografica (dopo l'anno mille) di importanza decisiva per l’etnografia delle Alpi.

Popoli germanici (Alemanni e Baiuvari) saranno i veri protagonisti della colonizzazione rurale delle terre alte, rispettivamente nei settori centro-occidentali e centro-orientali. Gli insediamenti verranno realizzati con le tecniche di cui si è già detto da coloni-contadini con lo status di “uomini liberi” sottoposti al signore non già con vincoli di sudditanza servile ma con contratti di affitto ereditario sanciti dal nuovo diritto colonico. Le Alpi custodiranno in tal modo quelle sacche di libertà impensabili negli altri comprensori rurali in un'epoca di “servitù della gleba”. In tal modo, gruppi di alemanni distribuiti a pelle di leopardo creeranno nuove dimore con campi e prati nei territori più impervi delle montagne dell’Oberland Bernese, dell’Alto Vallese (da cui il nome loro attribuito successivamente di Walser), delle valli italiane del Monte Rosa, dell’Ossola inferiore e della Formazza, della Rezia superiore (Grigioni e Vorarlberg) Alemanni di etnia sveva (provenienti dal Giura Svevo) si insedieranno in altre valli del Vorarlberg, nel Bregenzer Wald, nella nord-tirolese Lechtal e nell’Ausserfernpass, nel distretto di Landeck, nel sudtirolese Burgraviato (Ultental, Nonsberger, Meranese e parte della Venosta). Tedeschi di etnia baiuvara (originari della Bassa Baviera) germanizzeranno l’Alta Baviera, il Tirolo del Nord e del Sud fino alla conca di Bolzano.

Attraverso il corridoio della Pusteria giungeranno fino al Tirolo Orientale a contatto di popolazioni slave e più oltre in Carinzia e nell’Austria danubiana. Piccoli insediamenti baiuvari sono all’origine di alcune isole linguistiche del Trentino: i Mocheni (eredi dei minatori della Valle del Fersina) e i Cimbri (eredi dei boscaiolì degli altipiani di Folgaria, Lavarone e soprattutto Luserna) e del Veneto: i Cimbri (eredi dei boscaioli della Lessinia veronese, dei Sette Comuni, dell’Alpago-Cansiglio). Inoltre ancora baiuvari provenienti dalla Carinzia si sono insediati a Sappada nell’alto Piave veneto, a Timau e Sauris in Carnia e in Val Canale nel Tarvisiano.

La componente etnico-linguistica tedesca diventerà dunque una delle componenti più rappresentative dell’arco alpino, sia per estensione territoriale sia per un maggior attaccamento all’economia montanara. Ciò implica importanti risvolti di natura socio-culturale ed economica, che vale la pena di evidenziare. In primo luogo, il modello di insediamento germanico (tuttavia non uniforme in tutte le Alpi di lingua tedesca) rispecchia atteggiamenti culturali volti a privilegiare la forma “sparsa” del l'abitazione e della strutturazione dei fondi.

Già lo scrittore latino Tacito nell’opera letteraria sulla Germania annotava con meraviglia che i Germani costruiscono le proprie dimore in modo sparso ed in prossimità dì emergenze naturali (fonti, boschi, radure, etc.) diversamente dai Romani (e - possiamo aggiungere - dagli altri popoli mediterranei) che privilegiano la struttura accorpata dell’insediamento. Questo non trascurabile dettaglio indica che la vita rurale germanica si svolge direttamente sul luogo di produzione, a stretto contatto con gli elementi naturali, entro spazi aperti. Tale predisposizione mentale/culturale ha favorito i contadini-coloni nella presa di possesso (negoziata con i Signori feudali) di siti estremi per collocazione geografica, associati in molte situazioni storico-sociali ad assetti speciali della proprietà fondiaria. In particolare, nell’area tirolese (ivi compreso il Sud Tirol/Alto Adige), il principio della indivisibilità del fondo era (ed è fino ad oggi) rispettato. Dapprima praticato per vecchia consuetudine e poi codificato giuridicamente dall’Imperatrice Maria Teresa d’Austria secondo le norme dell’Anerbenrecht (diritto dell’erede principale), esso stabilisce che il figlio maggiore erediti tutta l’azienda agricola (Erbhof / Maso chiuso) costituita di campi, prati e boschi. Questo dispositivo di legge molto lungimirante ha impedito infatti che negli insediamenti di montagna (soprattutto i più alti e difficili da condurre e quindi di superficie più ampia per garantire l’autosufficienza economica) si mettessero in moto quei fenomeni di smembramento della proprietà contadina che hanno portato nelle Alpi latine a massicci spopolamenti ed abbandoni.

Purtroppo la crisi degli insediamenti alpini ha coinvolto in forma massiccia le Alpi francesi e italiane (il mondo latinizzato), sia per l’elevato fattore di parcellizzazione della proprietà fondiaria continuamente suddivisa da un passaggio ereditario all’altro, sia per ragioni più marcatamente culturali. L’insediamento accorpato di matrice latina è infatti espressione di una cultura che guarda all’agglomerato (paese, città) con un’attenzione maggiore rispetto al mondo germanico. La cultura contadina, nei paesi latini, è tendenzialmente subalterna rispetto alla cultura cittadina. Il contadino ed il montanaro sono percepiti e si auto-percepiscono come marginali rispetto alla gente di città. Molti appartenenti a minoranze linguistiche di area latina provavano fino a qualche tempo fa, in paesi come Italia e Francia, un senso di vergogna e di inferiorità culturale nell’uso del patois (dialetto occitano e francoprovenzale). La struttura sociale di questi Stati (Francia e Italia) si è orientata fin dal loro nascere fuori dell’arco alpino che rappresenta fisicamente (ma anche socialmente) uno spazio periferico “di frontiera”. Gli spartiacque principali delle Alpi che separano i bacini idrografici del versante esterno (transalpino) da quello interno (cisalpino) hanno incominciato, a partire dal Settecento (Trattato di Utrecht, 1713), a dividere popoli un tempo omogenei per continuità spaziale sui due versanti uniti da una struttura sociale e da una lingua comuni. L’idrografìa non incideva sull’etnografìa ma entrambe garantivano un’unità senza interruzioni. La geopolitica degli Stati-nazione moderni ha invece trasformato la cerniera delle Alpi in una barriera in cui si sono fronteggiati dal 1713 (Trattato di Utrecht) al 1947 (Trattato di Parigi) popoli che per scelte politiche maturate lontano dallo spazio alpino, hanno dovuto spesso trasformare uno statuto di fratellanza in uno statuto di inimicizia. Le comunità alpine, definite impropriamente (per ragioni quantitative legate al numero dei parlanti) “minoranze etniche o linguistiche” rispetto a maggioranze non alpine, potrebbero forse più propriamente essere registrate come comunità culturali a pieno titolo nella nuova Europa senza frontiere

  1. La toponomastica offre in proposito un’ampia documentazione di questi siti. A titolo di esempio possiamo citare l’Arma delle Mànie nel Finalese, il Monte Armetta sulla cresta principale delle Alpi Liguri, Arma di Taggia sulla costa, l’Arma del Vallonet sul confine ligure-nizzardo, i Bausi (italianizzato in Balzi Rossi), la Balma del Mondolè nel Monregalese, il Vallone dell’Arma nel Cuneese, la Sainte Baume in Provenza, i tanti Baus presenti nelle alte valli delle Marittime etc.
  2. Interessanti in proposito sono i lunghi itinerari di transumanza ancora presenti e praticati in alcune aree delle Alpi cui rimandiamo il lettore in un apposito box di approfondimento.
  3. Anche in questi casi è preziosa la testimonianza dei toponimi collegati alle pratiche di dissodamento soprattutto di età medievale. La ricorrenza frequente di vocaboli come Novale (nuovo dissodamento) associati a termini come Ronco, Roncaglia, Roncegno o, in area germanofona alemanna, di Brand (Brandertal in Vorarlberg), Schwendi (molti siti rinvenibili nel Saanenland/Oberland Bernese) o a bonifiche di paludi (Ried] ci conferma il grande ruolo svolto dalla colonizzazione agricola nelle Alpi.
  4. Da Chiavenna (Clavenna - Chiave delle Alpi) si raggiungevano i passi “romani” del Settimo (Septimer Pass), della Maloggia (Maloja Pass), del Giuglia (Julier Pass) per discendere nella Rezia Superiore a Coira (Curia Raetorum) e da Trento (Tridentum) perla valle dell’Adige (Pons Drusi) il Passo di Resia verso la Rezia Inferiore (via Claudia Augusta) con il suo centro di Augusta (Augusta Vindelicorum).
  5. Da Cividale del Friuli (Forum Julii) l’Alpis Julia (Sella di Caporosso, oppure il vicino Passo della Moistrocca) danno accesso alla valle della Sava (Lubiana).
  6. Significativa in proposito la strage dei Salassi operata dai Romani in Valle d’Aosta nell’alto Canavese.
  7. Alcuni studiosi li mettono in relazione con gli Etruschi.
  8. Non in senso storico-cronologico in quanto l’ultima popolazione pre-romana ad essere sottomessa sarà quella dei Liguri Comati della Liguria Occidentale (I sec. a.C.) come riportato dal Trofeo delle Alpi fatto erigere da Augusto sul colle de La Turbie  (I sec. d.C) alle spalle dell’attuale Principato di Monaco presso l’antico confine tra Liguria e Provenza.
  9. La promulgazione da parte dello Stato italiano della legge 15 dicembre 1999 n° 482:

«Tutela e promozione delle minoranze linguistiche storiche» va nella direzione di considerare una ricchezza culturale la presenza di tradizioni linguistiche antiche tutelandone il valore materiale e simbolico fuori da logiche di emergenza e di costrizione come è invece accaduto per le realtà della Provincia di Bolzano o precedentemente per alla valle d'Aosta e la Slavia veneta.

ALPICOLTURA

II territorio alpino, per il suo prevalente sviluppo nel senso dell’attitudine, determina una grande variabilità di microclimi entro spazi brevi. Questa particolarità naturale favorisce lo sfruttamento stagionale delle fasce altitudinali nell’ambito delle attività agricole e pastorali. La forte vocazione dell’economia alpina all’allevamento del bestiame ha determinato una razionale suddivisione del territorio secondo alcune variabili come la quota altimetrica, l’esposizione al sole dei versanti, la morfologia dei terreni. L’utilizzazione intelligente di queste peculiarità naturali rende praticabile una oculata gestione del bestiame. Vi sono nell’arco alpino valli che penetrano profondamente nella catena mantenendosi a quote relativamente basse. Questo particolare morfologico determina dislivelli enormi tra il fondovalle o il pedemonte ed i pascoli sommitali. Alcuni esempi sono emblematici. Nella valle dell’Ossola si passa da una quota di circa 300 m del piano base a quote superiori ai 2000 m degli alpeggi con un dislivello di 1000 m e oltre. Stessa situazione si riscontra nel Cantone Ticino in particolare in valle Maggia nel Locarnese. Condizioni simili le troviamo nel medio Vallese o in Valtellina o in Val Venosta (Vinschgau). Ciò ha imposto all’alpigiano la creazione di più stazioni intermedie di passaggio dai villaggi bassi dove sono ricoverati gli animali durante l’inverno (stabulazione invernale) alle stazioni più alte (mete finali estive).

Lo schema (indicativo e non generalizzabile in tutte le Alpi) in sintesi può essere il seguente:

villaggio (stabulazione invernale)

  1. monte (maggengo)
  2. alpe inferiore (alpeggio)
  3. alpe superiore (alpeggio)
  4. monte (maggengo)
  5. villaggio (stabulazione invernale)

Da questo schema ricaviamo alcune informazioni interessanti. Il ritiro della neve verso quote tra i 1000 e i 1500 mt, accelerato dall’alpigiano con lo spargimento di  letame e terra (per catturare i raggi solari), favorisce la crescita dell’erba (maggese). Pertanto in questo periodo inizia il primo spostamento (monticazione) del bestiame e degli uomini su terrazzi erbosi ricavati dall’uomo attraverso l’esbosco e trasformati in prati fienai. Qui si resterà (a seconda delle zone) da maggio a fine giugno, quando si metterà in moto la salita all’alpeggio (inalpamento) inferiore e (verso metà luglio) superiore. Dopo metà agosto inizierà il cammino inverso e verso la seconda metà di settembre (disalpamento) si riscende dall'Alpe al Monte finché ai primi di novembre il ciclo si concluderà con la definitiva stabulazione.

TRANSUMANZA

Nel testo sull’alpicoltura è stato descritto lo spostamento in senso verticale (ascendente e discendente) del bestiame (prevalentemente bovino) dai villaggi alpini ai pascoli sommitali (alpeggi). È questa l’espressione più autentica dell’economia alpina (Alpwirtschaft). Vi è però anche nelle Alpi un tipo di spostamento sulle lunghe distanze dove l’ascesa verticale è compensata anche da lunghi spostamenti in senso più orizzontale. È un tipo di economia pastorale diffuso soprattutto nelle aree delle cosiddette “montagne secche”, territori dove l’aridità del clima impone lunghi percorsi alla ricerca di pascoli freschi. Tale usanza era molto diffusa un tempo in Africa, in Asia, nel Medio e Vicino Oriente. Nel bacino del Mediterraneo era particolarmente praticata dalle montagne del Magreb alle montagne delle grandi penisole (Iberica, Italica, Balcanica). In Italia si trovano i grandi itinerari di transumanza appenninica (dall’Abruzzo al Tavoliere delle Puglie, dall’Abruzzo alle maremme laziali, etc.) e insulare (in Sardegna particolarmente, dalle Barbagie al Campidano). Si tratta quasi esclusivamente dì bestiame ovino adatto agli ambienti aridi e frugali. Nelle Alpi, dove le zone aride sono meno frequenti, il fenomeno è più limitato. Vi sono però alcuni interessanti percorsi (anche se oggi molto ridimensionati) nelle Alpi secche sud occidentali tra Provenza e Delfinato in Francia dove grandi troupeaux de moutons (greggi di montoni e pecore con migliaia di capi), dopo aver svernato sulle piane costiere del delta del Rodano (deserto della Crau), attraversano le Alpilles (Saint Rémy de Provence) e risalgono il corso della Durance sparpagliandosi nei pascoli alti dell’Ubaye, del Guil (Queyras), della Guisane, della Clarée (Brianzonese) o nei bacini della Drome (Diois) verso l'altopiano del Vercors. Nelle Alpi italiane fino all’ultima guerra il piccolo popolo dei brigaschi, nelle Alpi Marittime, praticava la transumanza ovina dalla riviera ligure e nizzarda al massiccio del Marguareis. Sempre nelle Alpi Marittime lunghi percorsi impegnavano le greggi dal massiccio del Clapier/Gelas alle pianure dell’alessandrino, dell’oltrepò pavese fino al piacentino. Altra zona secca sono le Alpi del Vallese (Svizzera) che registrano spostamenti di greggi ancora oggi lungo l’itinerario del Passo Gemmi tra l'assolato versante di Leuk ed i freschi pascoli dell’Oberland Bernese. Molto note sono le tradizioni pastorali nelle valli bergamasche e bresciane (gergo pastorale Gaì della Val Canonica) ed i lunghi “percorsi di pecore” tra le montagne orobiche e camune ed i pascoli dei Grigioni e oltre fino alle porte di Zurigo! Ma una delle maggiori attrattive della transumanza sopravvissuta nelle Alpi è quella di Senales (Val Venosta) tra i versanti aridi delle “garighe” di Lasa ed i verdissimi pascoli nordtirolesi di Vent (Austria). La spettacolarità è assicurata dall’attraversamento dei ghiacciai in prossimità del Niederjoch (il Giogo Basso vicino al luogo di ritrovamento della mummia del Similaun) con lunghe file di pecore marchiate che arrancano nella neve. Dal punto di vista socio-antropologico è utile distinguere la figura del pastore transumante (di pecore) da quella del l’alpigiano (contadino/allevatore di bovine). Si tratta di figure spesso antagoniste nella percezione sociale poiché riproducono l’opposizione tra nomadismo e residenzialità in termini di egemonia o subalternità culturale (relativamente alle culture di appartenenza).

RELIGIOSITÀ

Un ruolo importante ha svolto la religiosità nei territori alpini. Fino dall’età preistorica le “forme elementari della vita religiosa” come direbbe il sociologo Durkheim (1912), hanno scandito i giorni, le stagioni, i tempi storici e mitologici. E proprio da una osservazione di Robert Hertz (allievo di Durkheim) relativa al Pellegrinaggio a San Besso nelle Alpi Occidentali tra Valle d’Aosta (Cogne) e Piemonte (Val Soana), nasce l’etnografìa alpina. Il 10 agosto di ogni anno i valligiani dei due versanti si incontrano nei pressi di un anfratto roccioso dove è stata costruita una cappella dedicata al legionario Besso, martire della Legione Tebea. Questa Legione romana, convertita al Cristianesimo, venne massacrata nell’anno 286 su ordine dell’Imperatore romano Massimiano nella località di Agaunum (oggi Saint-Maurice-en-Valais). Insieme con il legionario Besso la tradizione popolare annovera Maurizio (futuro protettore di Casa Savoia), Magno, Costanzo, Defendente, Dalmazzo cui sono dedicate molte località comprese tra le Alpi Pennine e le Alpi Marittime. Secondo la leggenda, San Besso sarebbe riuscito a sfuggire al massacro e si sarebbe ritirato tra le montagne della Val Soana. A lui vennero successivamente attribuiti poteri taumaturgici e da quasi duemila anni le comunità delle due valli gli tributano festeggiamenti. Qui si intrecciano spesso pratiche devozionali di origine pagana e magica (significativa è la presenza di elementi naturali sacralizzati come l’acqua, la roccia). Nelle Alpi il Cristianesimo, che ha interessato dapprima le città, è arrivato con ritardo incontrando difficoltà dovute alla resistenza di una religiosità pagana autoctona legata ai cicli della natura. L’immaginario delle genti alpine era infatti popolato di draghi, mostri, diavoli, anguane (aganis) masche (streghe), sbilfs. Inoltre le potenze naturali come il sole, il fuoco, l’acqua erano oggetti di adorazione diffusi. La penetrazione cristiana non sempre cancella e sostituisce le forme precedenti di religiosità. Spesso si sovrappone ad esse trasformandone i contenuti ma conservandone le forme esteriori. Molte ricorrenze calendariali dedicate ai Santi rimandano infatti a culti precristiani legati a solstizi ed equinozi, riti propiziatori dei raccolti e riti “rumorosi” (percussione di oggetti) a carattere apotropaico. In Val Venosta il lancio di dischi infuocati annuncia l’arrivo della primavera e la fine dell’inverno. Ad Urnaesch (Cantone di Appenzell) gli “uomini-albero” espressione di riti vegetalisti a carattere propiziatorio, sfilano per le strade del villaggio a segnare l’inizio dell’anno secondo il calendario giuliano (6 gennaio). Numerosi pellegrinaggi sul modello di San Besso attraversano le montagne a rinsaldare antichi legami intra-alpini come quello della Madonna del Laghet o di Utelle nel nizzardo, della Salette nel Delfinato, delle Madonne Nere di Oropa nelle Prealpi Biellesi o di Einsiedeln nel Cantone di Schwytz (vere trasposizioni di culti pagani della Madre Terra), o di Maria Weissenstein a Pietralba di Petersberg (BZ), di Maria Luggau tra Carinzia e Comelico, del Monte Santo di Lussari nel Tarvisiano, Carnia e il Friuli tutto (Krampus, Tomàz, Rollate (tipiche maschere di legno)

FESTE

La festa costituisce uno dei momenti fondamentali per le società tradizionali a tipo-logia rurale. Nelle Alpi occupa una posizione centrale come strategia di aggregazione della comunità e di controllo sociale dei gruppi. Per questi motivi ha sempre richiamato l’attenzione di etnografi ed antropologi. Essa non svolge quindi un ruolo veramente ricreativo e ludico in senso moderno, ma assolve ad un’importante funzione rituale come dispositivo simbolico di ricostituzione ciclica dell’ordine sociale. Il carattere ripetitivo ad intervalli regolari introduce elementi di rassicurazione per la comunità rafforzando i sentimenti di appartenenza. Nel momento in cui riattualizza il passato, conferma le certezze del gruppo ripristinando la memoria delle origini. Nelle piccole comunità alpine, periodicamente alleggerite dalle migrazioni stagionali, il ritrovarsi a fare festa riannoda i legami familiari e sociali. Le feste alpine hanno origini antiche e si accompagnano spesso alle vicende dei cicli delle stagioni e della vita (Riti di passaggio). Le feste d’inverno, ad esempio, sottolineano l’importanza della luce per la vita in montagna e comportano tutta una serie di cerimonie che occupano quello che nella liturgia cristiana è il tempo di Natale (dalla distribuzione di doni ai bambini per Sankta KIaus / San Nicola dal Tirolo al Vallese agli Sternsingen / Cantori della Stella dell’Epifania tra Baviera, Tirolo e Valle dei Mocheni). I fuochi epifanici del Friuli, I Krampus di Sappada e Tarvisio. Poi si entra in una fase profana delle feste che è quella di Carnevale. Questo periodo dell’anno viene celebrato con intensità nell’arco alpino e vede spesso protagonisti i giovani incaricati di gestire le feste carnevalesche. Da quelle occidentali, che rievocano la cacciata dei Saraceni dalle valli (le celebri Badìe o Abbayo delle valli occitane come a Sanpeyre in val Varaita) ai carnevale della Loetschental (Vallese) con gli uomini-orso, ai “Brutti e Belli” di Bagolino in val Caffaro fino alla maschera del Rollate di Sappada, il fuoco de “femenute o femenate della Carnia (vallate alto But e del Incarojo), lo spettro del carnevale alpino è molto ampio. Le feste religiose dì primavera coincidono con il periodo pasquale, ma veicolano significati e messaggi arcaici collegabili con la celebrazione della rinascita della natura e della rinascita simbolica della vita. Molto ricorrenti tra queste feste sono i canti di questua nei quali i bambini passano di cascina in cascina a chiedere uovo e doni («cantare le uova» si dice in Piemonte). La fine della primavera e l’inizio dell’estate viene di norma salutato con importanti segni esteriori come accensioni di falò dalle Alpi Liguri al Tirolo. Un periodo che coincide con l’evento fondamentale della vita alpina costituito dalla salita all’alpe e sottolineato da danze, musiche e gorgheggi (Jodel nelle Alpi di lingua tedesca e Ranzes des vaches nelle Alpi francofone del Basso Vallese, del Vaud, dell’alta Savoia). Le feste dell’estate erano celebrate con particolare intensità sugli alpeggi (cristianizzate nelle tante Madonne delle Nevi) come ringraziamento ed auspicio per una buona produzione di latticini e segnali apotropaici contro malattie ed incidenti (cadute e folgori) degli animali. La discesa dall’alpe segnava invece la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno. Nel Vallese (Valli d’Hérens, di Anniviers, di Bagnes) come nella contigua Valle d’Aosta la desarpo costituiva (e costituisce ancor oggi) un’occasione di festa e di incoronazione per le più belle “regine” inghirlandate, vacche gravide destinate ad affermare la loro superiorità nelle celebri batailles des reines (significative in proposito le finali di Aosta e di Les Hauderes in val d’Hérens).

ALPI OCCITANE

Lo spazio culturale e linguistico occupato dalle Alpi dove si parlano varianti idiomatiche della lingua d’Oc abbraccia un’ampia porzione di territorio compresa tra la bassa valle del Rodano (da Valence al delta) a ovest e la linea pedemontana prossima allo sbocco delle valli nella pianura piemontese a est. Le Alpi occitane occupano quindi la porzione orientale dell’Occitania che ad ovest del Rodano si estende fino ai Pirenei. Durante il medioevo questa lingua, originata dal latino su substrato celto-ligure, godeva di un’alta considerazione letteraria attestata da una vasta produzione poetica. La catena alpina, come negli altri settori delle Alpi, fungeva da cerniera tra il versante transalpino (oggi francese) e quello cisalpino (oggi italiano), per cui anche le popolazioni delle valli di quest’ultimo versante si riversavano oltregiogo piuttosto che verso la piana piemontese. È una tendenza, un destino delle genti alpine quello di comunicare con il “pianeta montagna”. Una realtà che gli Stati nazionali non hanno mai compreso fino in fondo, accecati da sciovinismi e da irredentismi egemonici. È per questo che la terra occitana già dal XV secolo cadrà sotto l’influenza francese perdendo progressivamente la propria identità culturale. La porzione transalpina delle Alpi occitane riguarda le due regioni storiche di Provenza e Sud Delfinato che la struttura giacobino-napoleonico dello Stato francese ha smembrato in tanti dipartimenti “oro-idrografici” (in nome del primato di confini certi naturali su confini incerti etnografici). La scuola d’oltralpe ha svolto una funzione livellatrice sulle parlate locali di origine occitana per cui la situazione oggi è piuttosto preoccupante. Sul versante piemontese, l’occitano alpino interessa sacche residuali nel settore alto delle valli dove si è conservato fino ai nostri giorni. Attualmente l’interesse alla riscoperta della parlata è forte insieme con il recupero “colto” della cultura materiale (alimentazione ed artigianato) ma, soprattutto, della musica e della danza. Sono sempre più frequenti le occasioni di ascolto di ghironde e semitoun (strumenti musicali) che accompagnano gighe e courente (danze) soprattutto tra i giovani. La maggior parte delle valli occitane d’Italia si trova nella provincia di Cuneo, con un’appendice che si spinge in provincia di Torino ed include porzioni di quella federazione alpina che dal secolo XIV al XVIII ha costituito la piccola Repubblica degli Escartons. Essa ha rappresentato un faro di libertà, di autonomia amministrativa e di buona scolarizzazione a cavallo delle Alpi Cozie, articolata in due Escartons (ripartizioni) sul versante della Durance (Briancon e Queyras) e tre sul versante padano (Chateau Dauphin / Casteldelfino oggi in provincia di Cuneo, Ciuson / Chisone e Oulx in provincia di Torino). Anche in Liguria si trova un'appendice di cultura occitana in Valle Roya (Olivetta San Michele) e in Valle Argentina (varianti “brigasche” di Realdo e Verdeggia).

ALPI FRANCOFONE (FRANCOPROVENZALI)

Con il termine di Alpi francofone intendiamo riferirci a quella porzione del settore al-pino nord-occidentale che, a partire dagli studi del grande glottologo friulano Graziadio Isaia Ascoli (1878), si usa definire come francoprovenzale. La ragione di questa denominazione va cercata nella posizione intermedia che queste parlate (chiamate dai francesi in senso svalutativo patois) occupano tra il francese a nord (lingua d’oil) e l’occitano della Provenza a sud (lingua d’oc). Qualche erudito locale ha avanzato la proposta di definire questa comunità linguistica con il nome di Arpitani (da Arp, Alpe, Alpigiano) per la grande tradizione di alpicoltura presente in queste regioni. La loro collocazione geografica abbraccia un’area che va, nel versante transalpino (francese e svizzero) dal nord Delfinato (conca di Grenoble – Dipartimento dell’lsère) alle due Savoie, alla Franca Contea, alla Svizzera Romanda con i Cantoni di Ginevra, Vaud, Basso Vallese (escludendo i territori del Giura che non appartengono più alle Alpi). Queste entità geografiche corrispondono approssimativamente all’area di influenza storica del Ducato di Borgogna. Sul versante cisalpino (italiano) una porzione rilevante è occupata dalla Valle d'Aosta dove il francoprovenzale è tutelato assieme al francese come parlata identitaria. In Piemonte sono incluse le valli del Canavese (Orco e Soana) e del Torinese (Lanzo, Bassa Valle di Susa e Cenischia, Sangone): tutte in provincia di Torino. In gran parte di questo scacchiere di microentità alpine la parlata francoprovenzale è stata quasi interamente assorbita dal francese sia nelle valli appartenenti alla Francia che in quelle appartenenti alla Confederazione Elvetica. In Italia, nelle valli torinesi e canavesane, il piemontese prima e l’italiano poi hanno trasformato in reviviscenze folcloristiche la memoria linguistica locale. Solo la Valle d’Aosta, come si è detto, tutela sul piano legislativo l’i-dioma francoprovenzaìe e di conseguenza anche la competenza linguistica attiva (uso pratico quotidiano) è piuttosto alta (circa metà della popolazione). Il merito di questa tutela va tributato prima di tutto agli estensori di quel documento storico noto come «Carta di Chivasso» che il 19 dicembre 1943, nel pieno della seconda guerra mondiale, pose le basi di una visione europeistica dello spazio alpino in senso transfrontaliero. Tale documento recuperava la tradizionale concezione della democrazia alpina come espressione di libertà amministrativa e di pluralismo linguistico. Dopo 58 anni la “Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine” conserva

intatta la propria attualità non solo per la Vallèe ma per tutto il mondo alpino.  Vogliamo ricordare i nomi degli intellettuali valdostani e valdesi (esponenti a loro volta di una minoranza religiosa presente nelle valli occitane Pellice, Germanasca e Chisone). Essi sono: per la Val d’Aosta Emile Chanoux ed Erneste Page, per le valli

Valdesi Osvaldo Coisson, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier.

ALPI RETO- ROMANCE E SLAVE

L’arco montano che va dal centro delle Alpi (Passo del San Gottardo) alla Carnia era fino agli inizi della colonizzazione tedesca un territorio scarsamente popolato (solo diradati insediamenti di origine retica). Sul popolo dei Reti non disponiamo di molte conoscenze, ma sappiamo che ha rappresentato uno dei più antichi popoli delle Alpi. L’impatto con i Romani ha prodotto fenomeni di assimila-zione culturale rilevanti ma, soprattutto, fenomeni di assimilazione linguistica generalizzati. Questo particolare giustifica la denominazione di Reto-romani, ma anche quella proposta dallo stesso glottologo Ascoli di Ladini. All’interno infatti della gran-de koinè retica si suole introdurre quest’ultima distinzione per differenziare le comunità presenti a nord delle Alpi (Grigioni), maggiormente influenzate dalla vicina popolazione tedesca, da quelle del sud delle Alpi (Engadina e Dolomiti) a contatto con popolazioni italofone. In realtà, come si è visto per i francoprovenzali, i romanci e i ladini si collocano in una fascia cuscinetto tra genti di parlata italofona a sud e genti di parlata germanofona a nord. Le influenze dell’una e dell’altra componente sono presenti in misura diversa a seconda delle regioni di riferimento. La componente reto-romana della Svizzera, prima dell’arrivo dei coloni tedeschi, era abitata da queste comunità stanziate da tempi remotissimi nelle mezze coste a “solivo” della valle del Reno Anteriore (Surselva), del Reno Posteriore (Thusis), della valle della Gelgia (Sursett), della valle dell’Albula, della regione di Coira (Curia Raetorum). Le parlate riconducibili a quest’area sono rispettivamente il Sursilan, il Sottsil-van, il Surmiran che insieme ai ladini engadinesi del Puter (Engadina Alta) e Valader (Engadina Bassa) concorrono a costituire il Romancio Grigione risultato della“normalizzazione” grafica e fonetica richiesta dalla Legge Federale Svizzera per il riconoscimento del Romancio come quarta lingua nazionale della Confederazione. Nell’area dolomitica il ladino più radicato e meglio conservato è quello delle valli Badia e Marebbe che subisce di meno l’influenza del tedesco rispetto al ladino gardenese o a quella dell’italiano trentino nella val di Fassa. Situazioni critiche attraversano invece le parlate ladine del Veneto: dal Fodòm di Livinallongo e Col Santa Lucia all’Ampezzano di Cortina, agli idiomi del Comelico e del Cadore intensamente “venetizzati”. Un discorso a parte merita il Friulano che, pur appartenendo alla koinè ladina, se ne discosta per apporti autonomi.

La porta orientale delle Alpi (Alpis Julia) è invece contraddistinta dalla cultura slovena. Una popolazione che già dal VII secolo si spingerà fino al limite della Pusteria attraverso la Carinzia ed il Tirolo orientale. La discesa verso sud di popoli slavi interessa dapprima le Alpi per estendersi poi nei Balcani. Ma gli Sloveni restano un popolo alpino a tutti gli effetti. Oltre alle Alpi slovene vere e proprie, isole linguistiche e culturali di questo tipo le troviamo nella Stiria e nella Carinzia austriache nonché nelle provincie italiane di Trieste (Carso) e Gorizia (Collio) nella Venezia Giulia e nelle valli del Natisone, del Torre, dello Judrio, di Val Resia e di Val Canale in provincia di Udine in Friuli. Ma mentre qui molti insediamenti sono fortemente assimilati all’elemento alloglotto, nelle provincie di Gorizia e soprattutto Trieste si segnalano fattori di ripresa.

P.S. la lingua friulana è citata anche da DANTE il sommo poeta nel suo De vulgari eloquentia

Liberamente tratto da: CAI 2005 Territorio e comunità delle Alpi

Contatti

Luisa Pavan

 

Scrivici

Scrivici una mail...

Ti risponderemo prima possibile.